domenica 26 ottobre 2008

Una storia vera...

Vi racconto una storia, una come tante. Non ho l’esclusiva, lo so bene.

Ho cominciato a fare la giornalista più di vent’anni fa. Trafila di quasi tutti (a parte i fortunati che già allora avevano fatto la scuola di giornalismo e arrivavano da altre strade): qualcuno ti presenta al direttore, cominci a collaborare, solita gavetta, settemila lire ad articolo – praticamente un rimborso spese -, la domenica mattina presto ti spediscono a fare cose che i giornalisti assunti non farebbero mai ma ti pagano la stessa cifra, aspetti i due anni per diventare pubblicista, aspetti secoli per il riconoscimento dell’avvenuto praticantato perché come praticante non ti hanno mai assunta e comunque ti hanno fatto passare davanti schiere di figli di qualcuno, studi per gli esami (e i colleghi che ti telefonano e ti trovano sempre sui libri ti sfottono, perché tanto – ti spiegano – poi lì ci sarà qualcuno che ti passa le risposte), li superi da sola; nel frattempo uno straccio di contratto te l’hanno fatto, non al giornale ma per la radio e come impiegato del settore metalmeccanico e chiedendoti di firmare contestualmente una lettera di dimissioni. A un certo punto, per loro vicende aziendali interne, ti licenziano e ti riassumono da un’altra parte. Non contratto Fnsi: quello te lo sogni. L’impero economico afferisce a una sola persona, ma ufficialmente si tratta di una miriade di piccole aziende e dunque, come i piccoli veri - che altrimenti non ce la farebbero a sopportare il costo di due giornalisti -, ti assumono con contratto Frt. Lo subisci, non hai scelta.

Poi un giorno scoprono che sei comunista e comincia il mobbing. Non importa che tu sia brava, che la gente quando scrivevi al giornale ti mandasse le lettere per ringraziarti e complimentarsi, che altri accendano la loro radio discotecara soltanto per ascoltare il mio gr, che io sia una che va a lavorare anche con la febbre e quando va via spegne la luce per evitare sprechi. Tutto questo è assolutamente ininfluente di fronte alla grave colpa di essere comunista. Tre anni di mobbing, messi in atto da un tangentista che è stato pure in galera. Perché in questo mondo alla rovescia i delinquenti vanno a testa alta e le persone per bene curvano la schiena. Dopo tre anni mi hanno detto che mi mandavano via e li ho quasi ringraziati. Perché anche se hai le spalle quadrate, tre anni di vessazioni quotidiane non li reggi più.

No, non gli ho fatto causa, né per il mobbing né per il licenziamento. Non c’era partita. Nella mia città i magistrati vanno a cena col padrone, il sindacato è stato a lungo diretta emanazione del padrone, non avrei trovato nessuno disposto a testimoniare (e non gliel’avrei mai chiesto, sapendo a cosa andavano incontro) perché se lavori in un’azienda matrioska, ognuno dipendente di una società diversa, non puoi essere solidale con i compagni di lavoro e rischiare il tuo posto e il futuro dei tuoi figli. E poi, appunto, loro il giochetto lo conoscono bene: piccola società, elimini il posto di lavoro chiudendo la redazione, licenziamento per giusta causa. Ineccepibile.

Dopo circa un anno dal licenziamento mi è capitata un’occasione: un ufficio stampa di prestigio nella capitale. L’ho accettato, ma non ho retto, e questa forse è l’unica mia colpa: non essere riuscita, dopo 50 anni che ci vivevo, a stare lontana dalla mia terra e dai miei affetti. Sono tornata, nel frattempo ho ottenuto una collaborazione fissa con un piccolo giornale nazionale: meno di mezzo stipendio, ma ci campavo. Se vivi in una zona depressa i costi sono più bassi. Aggiungeteci che mangio il minimo indispensabile, mi vesto al mercato, faccio la spesa in un supermercato dove c’è una sola marca di latte mozzarella yogurt formaggio che sembra di stare in Unione sovietica (e le cose costano un quarto che altrove), non telefono a mia madre e aspetto che sia lei a farlo, non vado in vacanza, non vado a prendere la pizza con gli amici, anzi amici non ne ho più perché – nonostante il mio amore persino incosciente per le persone – l’amicizia vuol dire anche una sera a cena, una al cinema, la pizza, i regali...è un lusso che non posso permettermi. Ma mi andava bene anche così: facevo un lavoro che mi piace da morire e mi andava bene. Ho cercato altro per arrotondare, dai call center alle agenzie di vendita libri: colloquio ottimo, ma poi gli lasciavo il mio curriculum, da cui emergeva chiaramente – per i giornali in cui ho scritto e per gli uffici stampa – che sono comunista e non mi chiamavano più. Per non parlare dei tanti giornali a cui ho mandato il curriculum e che si sono guardati bene persino dal rispondermi. Lo ha fatto un altro piccolo giornale di una città vicina alla mia: copertura regionale, le cose non devono andargli poi tanto male visti i chilometri quadrati di cartelloni pubblicitari con cui hanno rivestito le città. Ho cominciato una collaborazione anche con loro, ma ho commesso un errore: non ho badato a chiedere quanto pagassero. E, con l’entusiasmo di chi ama il proprio lavoro e in più guadagna milioni e la meticolosità di chi cerca di dare il meglio (studiandosi montagne di carte, andando a parlare con la gente da intervistare come si faceva una volta), ho cominciato settimanalmente a inviare i miei servizi.

Poi, nella stessa giornata, l’amministratore del piccolo giornale nazionale (vittima come altri dei tagli alla piccola editoria voluti dal regime berlusconiano) mi ha telefonato per comunicarmi che le collaborazioni erano dimezzate (da 660 euro netti...fate voi il conto) mentre io chiamavo il piccolo giornale regionale da cui non avevo ancora avuto un centesimo dopo mesi e scoprivo che quei servizi da oltre 5.000 battute (quelli che in base al tariffario nazionale varrebbero oltre cento euro ciascuno) mi sarebbero stati pagati 10 euro lordi. Ho interrotto la collaborazione. E sarebbe meglio interrompere anche la vita quando diventa anche quella un lusso che non puoi permetterti.

P.S.: Scusate se non firmo la mia lettera e non vi do elementi per individuarmi, ma non posso rischiare – per di più – che qualcuno mi accusi di fare la vittima. Ma vorrei che qualcuno facesse qualcosa. Non per me: per tutti.

P.S 2 Ad Est per la prima volta da sempre pubblica una lettera anonima per il semplice motivo che la sente profondamente sua.
E' la storia di chi vuole fare un "mestiere", quello del giornalista, che per sua stessa natura è equivalente ad una missione.
A tutti gli amici blogger chiediamo di diffondere questa lettera.
Sappiamo, per averlo provato sulla nostra pelle, che la solitudine e l'abbandono sono fedeli compagni di chi scrive ma sono anche, e soprattutto, la sua peggior condanna.
All'amica giornalista devo confessare di aver chiesto ad Articolo 21 un aiuto .... ma c'erano altre priorità.
Dovrai dunque accontentarti di questo blog e degli amici "in rete" che vorranno seguire il nostro esempio.
Noi la nostra parte, come sempre, la stiamo garantendo.
Con il cuore.

Gato Alessi "Ad Est"
http://gaetanoalessi.blogspot.com/

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