martedì 18 agosto 2009

Successe a Guastanella..storie dalla lontana Sicilia

Antonio Fragapane

Questa è una storia realmente accaduta, svoltasi in tempi lontani. Tempi nei quali gli uomini erano spesso in lotta tra loro, in lotta per un pezzo di terra, a volte anche solo per un pezzo di pane. Erano tempi oggi considerati bui, pericolosi e di barbarie. L’intero mondo, almeno quello sino ad allora noto, stava conoscendo una fase di contrasti ed intrighi, ma allo stesso tempo si stavano schiudendo anni di rinascita, non solo culturale ed artistica, in una terra, la nostra Sicilia, da sempre al centro di interessi umani vigorosi e sanguigni. Siamo nella Sicilia del XIII secolo, esattamente nell’anno del signore 1220. Il luogo di cui si sta scrivendo è il monte Guastanella (conosciuto anche come monte Guastitel o Gastaiel), situato tra i comuni collinari di Raffadali e Santa Elisabetta, poco lontano da Agrigento, ed i fatti che si vogliono qui narrare sono connessi, essendo in parte lì avvenuti, col castello che su Guastanella si ergeva. Qui, in una fortificazione che ormai esiste solo nelle sue fondamenta, è stato tenuto prigioniero Ursone, vescovo di Agrigento. Ma facciamo un passo indietro. L’anno 1130 rappresenta per la nostra isola la data d’inizio ufficiale della dominazione normanna, instaurata da re Ruggero II, la quale, contestualmente, segna la fine del dominio arabo nell’isola, che durava dal IX secolo. Un particolare riferimento va doverosamente fatto ai tre secoli di dominazione musulmana, che hanno rappresentato per la Sicilia una fondamentale occasione di reale sviluppo: molte, infatti, sono state le influenze nella cultura, nell’arte, nella società e nell’economia che i saraceni hanno lasciato alla nostra terra. Tante città durante questo periodo sono state costruite, abbellite e rese più vivibili e sicure di quanto non lo fossero prima. Grazie alle numerose scuole e biblioteche aperte e funzionanti nell’isola, ricominciarono a circolare le più importanti opere degli autori latini classici, le prime traduzioni in latino delle opere di Aristotele, frutto del lavoro esegetico di molti importanti intellettuali arabi, tra i quali il celebre Averroè, e di tanti altri autori classici greci, all’epoca sconosciuti o dimenticati a causa della precedente tradizione orale. Inoltre, si posero le basi per grandi commerci che resero l’isola un’immensa area di scambio, tramite la quale si crearono innumerevoli mercati che indubbiamente hanno arricchito il patrimonio della nostra terra (tanto che ancora oggi beneficiamo di alcune prelibatezze che gli arabi importarono da noi in quel periodo, dallo zibibbo, o moscato d’Alessandria, ai canditi fino ai vermicelli). Dunque, sicuramente un periodo florido, di luce e di rinascita, dopo secoli difficili e problematici. Ovviamente, però, tale periodo, come in un’ideale medaglia dalle due facce, è stato anch’esso contrassegnato da scontri e dissidi fra le varie parti politiche e militari presenti in Sicilia, e non per i soliti motivi attribuibili alla diversità di religione o di fede, ma per altri, ben più secolari ed umani: la ricchezza economica ed il potere da esercitare sul popolo.
Ma approfondendo ulteriormente l’argomento, appare opportuno portare a conoscenza dei lettori una circostanza significativa che caratterizzò quell’epoca: i siciliani assoggettati al dominio musulmano, non solo non furono mai obbligati a rinnegare la loro fede o a convertirsi contro la loro volontà all’islam, ma non furono neanche mai assoggettati al diritto musulmano, poiché non essendo di fede islamica non avrebbero potuto essere destinatari di nessuna norma coranica, ma solamente di precetti normativi esistenti all’interno del sistema dello ius commune, di diretta derivazione romanistica ed allora vigente in tutta Europa. Sembra quasi che in un periodo della storia siciliana legato al lontano passato di cui sinora si è scritto, possa trovarsi un insegnamento per le attuali generazioni, historia magistra vitae: la constatazione che più di mille anni fa, nella nostra terra, cristiani e musulmani convivevano ed interagivano tra loro pacificamente, integrandosi, quindi, nel migliore dei modi possibili. A riprova di come il medioevo ingiustamente sia considerato unicamente un periodo cupo e di arretratezza, presentando, al contrario, esempi di modernità e tolleranza che oggi appaiono, purtroppo, improbabili ma tali da essere fortemente auspicabili.
Come poco sopra scritto, invece, con l’avvento di re Ruggero II ebbe inizio la dominazione normanna, la quale, sorta sotto l’egida di una dinastia da sempre abituata a farsi valere con le armi e gli eserciti piuttosto che con la diplomazia e l’acume politico, costituì il Regnum Siciliae, che all’inizio prosperò, in una sorta di continuum ideale col periodo arabo, ma che dopo qualche decennio evidenziò tutti i suoi limiti, determinati da lotte dinastiche e fratricide. Nel giro di pochi anni la Sicilia normanna degenerò nell’anarchia più totale, tanto che apparse “difficil che i cristiani si trattengano dall’opprimere i saraceni, e che questi, diffidando di loro e stanchi altresì di tanti torti, non si levino in armi, e non prendano qua un castello su la marina, là una rocca tra i monti”. Fu così che cominciarono scontri e conflitti sempre più duri e cruenti tra le popolazioni che allora abitavano l’isola, che capi o condottieri di parte aizzavano l’una contro l’altra. I saraceni, in minoranza, furono perseguitati e costretti a riparare tra le montagne dell’entroterra siculo, trasformato in un vero e proprio baluardo musulmano all’interno dell’isola. Dal canto loro, gli stessi saraceni colsero ogni occasione per sferrare duri colpi ai dominanti normanni prima ed a quelli svevi poi, utilizzando tecniche militari frutto della loro esperienza, ed occupando fortezze, castelli ed anche luoghi sacri ai cristiani.
Ed è in un tale contesto storico, caratterizzato anche dall’avvicendamento politico della dominazione sveva su quella normanna, che si inserisce la vicenda dalla quale ha origine questo scritto. Il vescovo Ursone, durante la sua esperienza ecclesiastica a capo della chiesa agrigentina, prima del suo rapimento fu oggetto di duri attacchi politici, essendo stato allontanato dapprima dall’imperatore Enrico VI, in quanto ritenuto figlio del rivale Tancredi, successivamente poiché non prestò giuramento a Guglielmo Capparono, allora signore di Agrigento, ed infine dai saraceni, che in lui videro l’autorità ideale contro la quale indirizzare i loro attacchi. Fu a causa di questa instabilità della chiesa locale, che la stessa fu privata dei suoi benefici e dei suoi possedimenti, culminando tutto con l’occupazione del campanile e del duomo agrigentino, sede, appunto, della cattedra vescovile. La situazione che si creò fu talmente drammatica che per un periodo non ci furono più battesimi da parte dei cristiani, e gli abitanti dei territori agrigentini non si recarono più per lungo tempo nemmeno nei campi per coltivarli e lavorarli. Il vescovo Ursone , subito dopo essere stato rapito, fu tenuto prigioniero, come riferito all’inizio, nel castello che allora si ergeva sulla sommità del monte Guastanella: una fortezza edificata molto probabilmente in epoca bizantina, ma la cui origine, sulla base di alcune suggestive ma non dimostrate teorie, è fatta risalire addirittura all’epoca punico-cartaginese. Fu certamente progettata e costruita in modo tale da poter essere arroccata sulla sommità del monte, risultando nel contempo facilmente difendibile, difficilmente espugnabile e dominante dall’alto un territorio che si estendeva dal casale di Rahal-faddal, in arabo “casale eccellente”(ovvero il feudo di Raffadali), passando per il fondo detto “Cometa” (l’attuale paese di Santa Elisabetta) fino alle pendici della rocca di Sant’Angelo Muxaro, ovvero parte dell’antica “via sicana”. Per questi territori quel periodo fu contrassegnato da mesi di paure e scontri tra militari svevi e ribelli musulmani. Si persero i ricordi dei precedenti periodi di pace e di prospera convivenza. Le vallate furono attraversate da ondate di saccheggi, e gli stessi uomini che prima si consideravano amici ed alleati rapidamente cominciarono a combattersi gli uni contro gli altri. Fu in un tale contesto storico che la prigionia dell’alto prelato cristiano si protrasse per quattordici lunghi mesi, terminando, dopo tante ed estenuanti trattative che videro protagonisti influenti uomini politici ed ecclesiastici del tempo, con il pagamento di una somma di cinquemila tarì d’oro, versata a titolo di riscatto, nel contempo ponendo fine ad un episodio della storia siciliana di particolare gravità e complessità, denso di conseguenze storiche e sociali, ed anche monito sulla pericolosità della degenerazione che il potere politico-militare può in ogni momento subire.
Si deve al verificarsi di tali eventi, il ritrovare nelle cronache siciliane dell’epoca, testimone della vicenda appena raccontata, una fortezza allora comune a tante altre, ma che oggi, non esistendo più nella sua interezza, rievoca, con le sue malinconiche fondazioni e con le sole stanze rimaste scavate nella pietra, tempi remoti, uomini lontani, conflitti antichi ed echi di un passato che, ad osservarlo meglio oggi, non sembra poi così tanto diverso dal nostro presente.

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