domenica 25 gennaio 2009

Vite precarie: "spegniamo il microfono ai professionisti della precarietà"

di Gaetano Alessi x Articolo 21

Giorni fa in TV, durante un dibattito sulla precarietà nel lavoro, ho visto politici, imprenditori, giornalisti, sociologi accapigliarsi sul tema. Tutta brava gente (grosso modo), tutti con viso incupito e parole infervorate, tutti seriamente interessati al problema, ma tutti profondamente falsi. Tanto da sembrare grotteschi. Semplicemente perché la precarietà non l' hanno mai provata e, in aggiunta, non la proveranno mai. La "casta" parla talmente forte dal suo circo medianico che nessuno ha più voglia di ascoltare le voci che vengono da "fuori".

C'è qualcosa che non va nel mondo che ci circonda. Sembriamo talmente asserragliati nelle nostre idee da non accorgerci che la realtà non è quella che vediamo, ma quella che percepiamo. Quella che ci provoca uno stato d'angoscia latente. Il terrore “dell’alba del giorno dopo”. Il mondo gira talmente veloce che tutto è diventato “usa e getta”: i cibi, gli amori, la parole, le idee, le notizie e le persone. Se ogni tanto riuscissimo a insinuare un corto circuito nella trottola della nostra vita e finalmente ci fermassimo ad ammirare la bellezza di un paesaggio, forse troveremmo la forza per ricominciare a guardare le cose e non solo a vederle. A trovare luce nella "ragione", così come Sciascia soleva intenderla.

Per un giovane che non ha avuto la fortuna di essere nato e cresciuto dentro una comunità, una qualsiasi, e d'avere tratto da essa le tracce per la lettura della propria vita, il paese che gli si staglia intorno è sempre più freddo e subdolo.

Una generazione talmente massacrata da non trovare più la forza nemmeno di protestare o di coltivare l'illusione della speranza. Ragazzi a cui una non chiara legge di mercato impone di buttare via anni di studi e passioni per inseguire, ogni giorno, una precaria sopravvivenza. Provate ad entrare in un negozio a Torino, Milano, Bologna, Roma, Palermo, Agrigento e parlare con un commesso.

Non vi saprà indicare dove è riposto un vestito, ma in compenso disserterete di storia, letteratura, musica, pedagogia e matematica. Perché quel ragazzo è un laureato o, se vi va male, un diplomato. Questa scena vi si ripeterà spesso, magari col banconista del bar o potreste scoprire, in un supplemento d'indagine, che il ragazzo che vi porta la pizza è dottorando in filosofia. Uomini e donne che scelgono, con dignità, di cimentarsi con il mondo del lavoro "nudi". Senza quelle che al sud si chiamano "raccomandazioni" e al nord "referenze".

Costretti a passare la loro vita umiliati dal tritacarne dell'interinale, a superare tre selezioni per trovare lavoro in un qualsiasi negozio.

A violentare i propri sogni perché devi trovarti un lavoro “materiale” per poter continuare a coltivare le tue passioni, i tuoi “lavori immateriali".

Se questo vi sembra inumano, pensate a chi sta peggio di loro. Quelli a cui la fortuna non ha dato la possibilità di poter studiare e che si trovano la strada sbarrata, anche per i lavori che sono definiti più umili, da diplomati e laureati. A loro che futuro spetterà? Credo, se non vissute, diventi arduo immedesimarsi in queste situazioni. Però nel rispetto di questi ragazzi potremmo fermarci tutti. Abbassare il tono del dibattito. Dare ascolto alla "ragione".

E capire, senza dubbio alcuno, che il problema precariato è una priorità sociale, che se lasciato incancrenire può degenerare in qualcosa di terribile.

Al Parlamento spettano le risposte. Ad una classe politica e all’ opinione pubblica, finora troppo silente, lo stimolo. Ma prima d’ogni cosa spegniamo il microfono agli "opinionisti della precarietà" che scorazzano in Tv.

Non è giusto pontificare sulla pelle degli altri.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro gato, sono Pippo Russo, il corsivista di "La Repubblica-Palermo".
Sono passato dal tuo blog e dando un'occhiata sommaria l'ho trovato interessante.
Tornerò a guardarlo tutte le volte che avrò un po' di tempo.
Un abbraccio
Pippo