Ho letto con amore e passione l’intervista a Vittoria e l’intervento di Gaetano Alessi presenti nel breve ma intenso libro sulla passionaria laica venuta a vivere a Raffadali. Per amore. Una rappresentazione viva, vera, viscerale di questa figura mite e gentile nei modi, forte e determinata nel perseguire i suoi obiettivi, primi fra tutti la pace, la libertà- come dice lei stessa- ma anche la giustizia sociale e la democrazia. Una certa tendenza modernista punta ad obnubilare il ruolo politico e la partigianeria dei personaggi del passato per fornirne una rappresentazione edulcorata dove si insiste sugli aspetti del vissuto personale riferito alla vita di relazione sociale e, al massimo, all’impegno civile. Una simile operazione nei confronti di Vittoria Giunti suonerebbe come una profanazione della verità storica ed un tentativo di evirare la sua carica rivoluzionaria. Gaetano non cede a questa tentazione. E gliene va dato merito. Egli presenta Vittoria per quello che era: una partigiana e una comunista.Non ho avuto modo di conoscere Vittoria Giunti negli anni cinquanta, un po’ perché piccolo un po’ perché confinato fuori da Raffadali per questione di emigrazione interna (mio padre, bracciante agricolo, si era spostato a Cianciana alla ricerca di terre da coltivare) un po’ per motivi di studio (come tanti altri figli di poveri ero finito in un collegio di Frati Minori dove ho completato la scuola media e iniziato il ginnasio e da doverci si allontanava per un periodo massimo di 15 giorni durante l’estate). Il primo incontro con Vittoria Giunti è avvenuto quando mi sono iscritto al circolo della FGCI nel 1959. Lei veniva una volta la settimana nella nostra sede e ci teneva il corso politico. Noi, ragazzi poveri ma avidi di sapere, ascoltavamo incantati quella donna “straniera” che in modo suadente ci intratteneva su Marx, l’URSS, Gramsci, la rivoluzione francese e quella russa. Era un’ottima insegnante. Riusciva a catturare la nostra attenzione ed a fare passare i messaggi senza sforzo apparente. Era sempre garbata, e ci coinvolgeva nelle “lezioni” sollecitando i nostri interventi. Appariva ai nostri occhi di ignoranti provinciali, cresciuti e formati nelle strade e nei “cumuna”, una figura aristocratica, quasi avvolta da un’ aureola di sacralità, verso la quale nutrivamo un profondo rispetto, Allo stesso tempo la percepivamo come una di noi, una donna del popolo, perché si calava con naturalezza nei nostri problemi e li affrontava con cognizione ed amore.Me la ricordo intrattenersi tra le donne del popolo in Via Canale, entrare in quelle case anguste odoranti di sterco di muli e deiezioni di maiale e galline, dove non disdegnava bere un po’ d’acqua dalla brocca di argilla cotta. Decisamente non faceva pesare il suo status sociale e la sua cultura superiore. E quando parlava con noi e con loro non si stancava mai di narrarci che i comunisti avevano sopportato il peso maggiore nella guerra di resistenza, che ci avevano dato la libertà, conquistata col sangue dei partigiani e di tanti figli del popolo, uomini e donne, che avevano supportato le azioni militari e di guerriglia degli uomini armati. E ci narrava del crollo del feudalesimo medievale grazie alle lotte dei contadini per la conquista delle terre, anche queste dirette dai comunisti. E ci faceva sognare e sperare, chè anche noi, poveri e sporchi, avremmo con lo studio e la lotta cambiato in meglio la nostra condizione sociale. Era decisamente una comunista convinta e militante, una partigiana in tempo di pace, perché parteggiava per i ceti sociali subalterni. Era una specie di missionaria laica e comunista. Una che voleva tenacemente cambiare lo stato di cose presenti, senza retorica, senza roboanti presenze sulla scena politica. Una che voleva essere più che apparire: una rivoluzionaria tranquilla.
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