di Jean-Léonard Touadi
C’era una volta un paese di emigrati. Gli italiani che lasciavano le loro terre alla ricerca di pane e dignità ovunque nel mondo. Le fotografie in bianco e nero ormai sbiadite e i filmati d’epoca non possono cancellare questo dato storico indelebilmente solcato nella memoria di questo paese, nei ricordi delle famiglie e nel vissuto d’interi paesi del sud come del nord svuotati dalla fame, dalla povertà, dalla mancanza di speranza. A quegli italiani il paese deve molto perché hanno assicurato per decenni, per loro e con le loro rimesse per quelli rimasti in patria, una vita dignitosa. Adesso con la loro fatica e la loro costanza gli emigrati rappresentano la parte migliore del nostro paese, i veri ambasciatori del modo di essere, di vivere e di creare del belpaese. Eppure a loro non sono stati risparmiati discriminazioni, pregiudizi e stereotipi, condizioni di lavoro pesanti senza tutele e con salari bassi. Per alcuni, anche la morte a diversi metri di profondità in una miniera di carbone come a Marcinelle in Belgio. Questa memoria è patrimonio storico dell’Italia intera, essa deve essere conservata e trasmessa alle nuove generazioni. Ma questa memoria è anche monito a non fare agli altri, agli immigrati di oggi, ciò che è stato fatto a noi quando “gli albanesi eravamo noi” secondo il bellissimo libro di Gian Antonio Stella dal titolo assai rivelatore “L’Orda”.Oggi siamo noi, gli italiani del Ventunesimo secolo a trasformare gli immigrati che arrivano a casa nostra in “orda”. L’orda dell’“invasione” evocata strumentalmente pochi giorni fa dal presidente del Consiglio Berlusconi; l’orda dei criminali stigmatizzati con un’equazione tra immigrazione e clandestinità che ha profondamente indignato, oltre a migliaia d’italiani, anche il quotidiano “L’Avvenire” che ha riportato le parole chiare della fondazione Caritas-migrantes; l’orda di coloro che rubano il lavoro agli italiani quando tutti sanno che il lavoro immigrato – per ora – è complementare e non competitivo rispetto a quello degli italiani; l’orda dei bambini stranieri che andrebbero separati dai loro coetanei italiani. E la lista potrebbe continuare dalla narrazione dell’alterità che demonizza, secondo una strategia tipica della costruzione sociale del nemico, non solo gli stranieri ma la diversità etnica, religiosa o culturale. E’ una strategia culturale prima ancora che politica che tende a creare un solco negli immaginari, negli interstizi della rabbia sociale e della frustrazione economica, tra “Noi” e “loro”. “Noi” a casa nostra padroni di tutto e di tutti, compresi i loro corpi, i loro diritti e le loro speranze; “loro” residenti senza diritti (l’espressione è di Alessandro Dal Lago), stranieri ed estranei, corpi erranti asserviti agli interessi e ai bisogni dei “cittadini” ma senza soggettività di diritti e di dignità. E tutto ciò nonostante l’articolo 2 della Carta costituzionale che afferma senza ambiguità l’inalienabilità dei diritti delle persone (non dei cittadini, in quest’articolo). I diritti appartengono alla persona in quanto persona e non sono nella disponibilità delle maggioranze politiche. Inoltre i diritti sono indivisibili, ciò significa che appartengono a tutti o a nessuno. Il principio di separazione nella titolarità dei diritti introduce un vulnus pericoloso dentro la garanzia dei diritti per tutti. In poche parole accettare di aprire un varco dentro il principio universale della titolarità dei diritti mina per tutti la fruizione degli stessi.L’Italia è diventata paese di immigrazione e deve prendere atto che questo fenomeno è stabile, organico e strutturale. L’immigrazione rappresenta la cifra precipua delle profonde trasformazioni che il paese deve affrontare da qui ai prossimi decenni. Anzi, la qualità della nostra capacità di misurarsi con le sfide della contemporaneità si misureranno con il nostro modo di gestire con responsabilità e innovazione normativa e programmatica la questione dell’immigrazione. Attraverso l’irrompere dell’immigrazione nel nostro tessuto produttivo, socio-culturale, dentro i processi di mutamenti urbani e all’interno dei meccanismi formativi delle nuove generazioni, l’Italia è alle prese con la sua propensione a traghettarsi dentro la globalizzazione con mappe concettuali e strategie operative all’altezza della complessità contemporanea. Ecco perché risulta metodologicamente importante assumere che gli immigrati vivono insieme a noi come parte di popolazione italiana. Vengono da lontano ma hanno piantato saldamente e in modo irreversibilmente duraturo le loro tende in mezzo alle nostre case. E’ la grande novità dell’innesto che pro-voca e che stimola con la promessa della sua ricchezza nella diversità. Proprio per questo il 1° marzo assume il valore di un passaggio simbolico importante. Possiamo dire che costituisce un evento-avvento per la società italiana. Essa è chiamata a interiorizzare ciò che viene quotidianamente rimosso, ossia il mutamento avvenuto nella sua struttura sociologica, nel cuore del suo sistema produttivo, nell’agorà della produzione culturale e, quindi, nella sua stessa definizione identitaria. Il 1° marzo potrebbe assumere per la società italiana le caratteristiche di un momento iniziatico, di passaggio verso una definitiva consapevolezza di essere diventato altro con l’irrompere degli altri. E’ un invito alla responsabilità della presenza degli altri. Responsabilità nel senso letterale di misurare il peso (res/pondus) della presenza e dell’agire dei nuovi cittadini per, insieme, costruire un futuro comune nonostante un passato e degli orizzonti religiosi e culturali ieri diversificati. Il 1° marzo è la prima volta per tutti, un vero e proprio battesimo del fuoco. E’ la prima volta per la politica, che deve liberarsi dei pregiudizi nonostante il delicato passaggio delle regionali, una fase a “semiotica limitata” in cui ogni tema che non cavalchi il populismo viene considerato come un tema “scomodo”. E’ la prima volta per gli stranieri, e per quel settore della società civile che sta lavorando per far conoscere la propria realtà positiva contro i limiti imposti dalle scarse economie e dalla potenza limitata dei propri mezzi. E’ la prima volta per l’opinione pubblica, che dovrà finalmente togliersi dal naso quegli occhiali “3d” che fanno vedere gli immigrati più brutti e cattivi di quanto non siano veramente. Ed è, soprattutto, la prima volta per l’informazione, che deve concentrare la propria attenzione sull’opera delle tante “mani invisibili” che aiutano ad aggiustare le vite degli italiani e a far ripartire l’economia. Ma il sodalizio è possibile: la stampa, le tv, i giornali potranno approfittare della par condicio e del vuoto di contenuti imposto dalle regole d’ingaggio politico-televisive per “scoprire la diversità”, scoperchiare il presunto vaso di Pandora dell’immigrazione e accorgersi che al suo interno, al posto dei demoni, ci sono le tante belle persone che contribuiscono silenziosamente a rendere l’Italia un Paese migliore.E’ un accorato invito a una par condicio del tutto particolare ed innovativa. Si tratta di illuminare di più in queste giornate la vita degli altri, la loro normalità, i loro sogni. Complice per troppo tempo – con parole, pensieri e omissioni - della costruzione sociale del nemico degli ultimi anni, la stampa tutta è chiamata ad un risarcimento collettivo. Un risarcimento che passa per il decentramento narrativo che consiste nel vedere, una volta tanto, le cose dal punto di vista dell’altro. Ma anche una promessa di una narrazione condivisa e più ricca che assimila la diversità e produce l’epifania della nuova Italia.
Ad Est aderisce alla sciopero e domani sarà con una sua delegazione alla manifestazione di Bologna.
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