di Salvatore Lo Leggio
Ha ragione Umberto Eco. La crisi di regime sembra piegare verso una conclusione autoritaria e la stessa gradualità con cui si attuano le diverse parti del disegno sembra favorirne la realizzazione, perché divide ed isola i potenziali oppositori ed abitua la pubblica opinione all’idea della ineluttabilità del processo in atto.
In questa fase al centro dell’attacco è il lavoro. Sul piano costituzionale non si prende più di mira, come qualche tempo fa aveva fatto l’ineffabile Brunetta, l’articolo 1 della Costituzione, la “Repubblica fondata sul lavoro”, ma si ripiega sull’articolo 41, quello che, riconoscendo l’iniziativa economica privata, la orienta a fini sociali. Ma lo svuotamento della Costituzione precede la sua modificazione formale. Esemplari, in questo senso, sono le scelte della Fiat a Pomigliano d’Arco, ove, da parte di un’impresa che si è ampiamente nutrita di provvidenza statali, fondi a perdere e rottamazioni, si condiziona il mantenimento del posto di lavoro all’accettazione di un diktat, che tocca il diritto costituzionale allo sciopero. Esemplari sono poi le grida di trionfo di Tremonti e Sacconi che esaltano come “storico” l’accordo sottoscritto da Cisl e Uil, che hanno ceduto al ricatto, come un modello da riprodurre dappertutto.
La compressione del lavoro, dei suoi diritti, della sua autonoma rappresentanza, in nome dell’assoluta supremazia dell’impresa e del capitale, è la chiave di volta del progetto in via di realizzazione. Spezzare la resistenza della Cgil è l’obiettivo primario. E lo si fa con tutta la violenza possibile. Da anni non si permette più che i lavoratori si pronuncino sui contratti con un referendum, né si dà alcun valore al fatto che nella loro maggioranza, spesso molto ampia, essi aderiscano ad organizzazioni che gli accordi rifiutano. Oggi invece a Pomigliano si è voluto il referendum, benché sia difficile considerare libero un pronunciamento quello che propone l’alternativa tra la sottomissione o il licenziamento; tanto più in un momento in cui il lavoro rischia di apparire un privilegio.
La morale è chiara: gli accordi li detta il padrone, li sottoscrivono i sindacati amici, li avalla il governo, diventano legge. I diritti dei lavoratori non contano. E se la Cgil vuole in qualche modo garantire i suoi iscritti, non faccia tante storie: firmi e si allinei. Solo così potrà sedere ai tavoli.
Un altro luogo di costruzione di un regime autoritario è lo Stato. Lo vuole ridotto al minimo nella parte che riguarda diritti e tutele. Il blocco dei contratti e degli scatti d’anzianità nel settore pubblico, i massicci licenziamenti nella scuola, la scandalosa sottovalutazione del valore anche economico dei beni e delle attività culturali sono aspetti di un attacco la cui punta di lancia è diretta sui più deboli e bisognosi.La cosa più nauseante è la protervia con cui ministri e propagandisti di regime presentano come riforme di progresso quello che è “macelleria sociale”.
Facciamo un esempio, anzi due.
Primo. Trincerandosi dietro la richiesta europea di equiparare le norme per il pensionamento tra uomini e donne nel lavoro pubblico, una delle tantissime richieste Ue disattese, il governo introduce fin dal primo gennaio 2012 la pensione a 65 anni. Parlano di estenderla anche alle dipendenti del privato. Dicono:“E’ norma di progresso e di libertà”. Aggiungono:“Alle donne che lavorano bisogna dare altro, sostegni nella maternità, asili nido, misure di parità”. Ma sono tutti provvedimenti che costano, e nessuno si sogna di tirare fuori un quattrino, neppure quelle e quelli che ne parlano con più sussiego.
Secondo. Hanno abbassato la misura per il conferimento della pensione di invalidità dall’85% al 75%, escludendo massicciamente i down, che in tempi come questi assai difficilmente troveranno impiego. Dicono: “E’ una riforma necessaria. Ci sono ancora troppi falsi invalidi, nel Sud”. Ammesso che sia vero, è il pervertimento di ogni logica: invece di scovare gl’invalidi finti, di punire le compiacenze e le complicità mediche e burocratiche, se la prendono con quelli veri.
I furbacchioni del governo hanno poi escogitato il sistema per sottrarsi a possibili proteste
attraverso il taglio dei trasferimenti alle Regioni e agli Anti locali. La ribellione dei “governatori” non ha prodotto nessuna positiva modifica della manovra. Saranno dunque Regioni, Province e Comuni a fare “macelleria sociale” sociale a tagliare ogni tipo d’aiuto agli anziani, alle famiglie in difficoltà, agli handicappati, agli emarginati, eccetera. Ne verrà fuori un generale imbarbarimento, con polarizzazioni da Terzo Mondo. L’accuratezza e la sfrontatezza con cui si mantengono privilegi di ogni tipo e con cui si tengono al riparo da tassazioni e sacrifici i ceti privilegiati, che pure vengono da un ventennio di vacche grasse, la dice lunga sul tipo di società che si vuole costruire. Cancellando nella Costituzione e nella politica la centralità del lavoro si afferma la centralità della ricchezza. Negando dignità alle lotte dei lavoratori si autorizza la guerra di classe dei ricchi contro la povera gente.
Ha ragione Umberto Eco. La crisi di regime sembra piegare verso una conclusione autoritaria e la stessa gradualità con cui si attuano le diverse parti del disegno sembra favorirne la realizzazione, perché divide ed isola i potenziali oppositori ed abitua la pubblica opinione all’idea della ineluttabilità del processo in atto.
In questa fase al centro dell’attacco è il lavoro. Sul piano costituzionale non si prende più di mira, come qualche tempo fa aveva fatto l’ineffabile Brunetta, l’articolo 1 della Costituzione, la “Repubblica fondata sul lavoro”, ma si ripiega sull’articolo 41, quello che, riconoscendo l’iniziativa economica privata, la orienta a fini sociali. Ma lo svuotamento della Costituzione precede la sua modificazione formale. Esemplari, in questo senso, sono le scelte della Fiat a Pomigliano d’Arco, ove, da parte di un’impresa che si è ampiamente nutrita di provvidenza statali, fondi a perdere e rottamazioni, si condiziona il mantenimento del posto di lavoro all’accettazione di un diktat, che tocca il diritto costituzionale allo sciopero. Esemplari sono poi le grida di trionfo di Tremonti e Sacconi che esaltano come “storico” l’accordo sottoscritto da Cisl e Uil, che hanno ceduto al ricatto, come un modello da riprodurre dappertutto.
La compressione del lavoro, dei suoi diritti, della sua autonoma rappresentanza, in nome dell’assoluta supremazia dell’impresa e del capitale, è la chiave di volta del progetto in via di realizzazione. Spezzare la resistenza della Cgil è l’obiettivo primario. E lo si fa con tutta la violenza possibile. Da anni non si permette più che i lavoratori si pronuncino sui contratti con un referendum, né si dà alcun valore al fatto che nella loro maggioranza, spesso molto ampia, essi aderiscano ad organizzazioni che gli accordi rifiutano. Oggi invece a Pomigliano si è voluto il referendum, benché sia difficile considerare libero un pronunciamento quello che propone l’alternativa tra la sottomissione o il licenziamento; tanto più in un momento in cui il lavoro rischia di apparire un privilegio.
La morale è chiara: gli accordi li detta il padrone, li sottoscrivono i sindacati amici, li avalla il governo, diventano legge. I diritti dei lavoratori non contano. E se la Cgil vuole in qualche modo garantire i suoi iscritti, non faccia tante storie: firmi e si allinei. Solo così potrà sedere ai tavoli.
Un altro luogo di costruzione di un regime autoritario è lo Stato. Lo vuole ridotto al minimo nella parte che riguarda diritti e tutele. Il blocco dei contratti e degli scatti d’anzianità nel settore pubblico, i massicci licenziamenti nella scuola, la scandalosa sottovalutazione del valore anche economico dei beni e delle attività culturali sono aspetti di un attacco la cui punta di lancia è diretta sui più deboli e bisognosi.La cosa più nauseante è la protervia con cui ministri e propagandisti di regime presentano come riforme di progresso quello che è “macelleria sociale”.
Facciamo un esempio, anzi due.
Primo. Trincerandosi dietro la richiesta europea di equiparare le norme per il pensionamento tra uomini e donne nel lavoro pubblico, una delle tantissime richieste Ue disattese, il governo introduce fin dal primo gennaio 2012 la pensione a 65 anni. Parlano di estenderla anche alle dipendenti del privato. Dicono:“E’ norma di progresso e di libertà”. Aggiungono:“Alle donne che lavorano bisogna dare altro, sostegni nella maternità, asili nido, misure di parità”. Ma sono tutti provvedimenti che costano, e nessuno si sogna di tirare fuori un quattrino, neppure quelle e quelli che ne parlano con più sussiego.
Secondo. Hanno abbassato la misura per il conferimento della pensione di invalidità dall’85% al 75%, escludendo massicciamente i down, che in tempi come questi assai difficilmente troveranno impiego. Dicono: “E’ una riforma necessaria. Ci sono ancora troppi falsi invalidi, nel Sud”. Ammesso che sia vero, è il pervertimento di ogni logica: invece di scovare gl’invalidi finti, di punire le compiacenze e le complicità mediche e burocratiche, se la prendono con quelli veri.
I furbacchioni del governo hanno poi escogitato il sistema per sottrarsi a possibili proteste
attraverso il taglio dei trasferimenti alle Regioni e agli Anti locali. La ribellione dei “governatori” non ha prodotto nessuna positiva modifica della manovra. Saranno dunque Regioni, Province e Comuni a fare “macelleria sociale” sociale a tagliare ogni tipo d’aiuto agli anziani, alle famiglie in difficoltà, agli handicappati, agli emarginati, eccetera. Ne verrà fuori un generale imbarbarimento, con polarizzazioni da Terzo Mondo. L’accuratezza e la sfrontatezza con cui si mantengono privilegi di ogni tipo e con cui si tengono al riparo da tassazioni e sacrifici i ceti privilegiati, che pure vengono da un ventennio di vacche grasse, la dice lunga sul tipo di società che si vuole costruire. Cancellando nella Costituzione e nella politica la centralità del lavoro si afferma la centralità della ricchezza. Negando dignità alle lotte dei lavoratori si autorizza la guerra di classe dei ricchi contro la povera gente.
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