giovedì 26 agosto 2010

Riparte l'università: tra bavagli ed incertezze

di Lucia Castellana

Settembre arriva ed è tempo d’esami. Studenti in ansia hanno già da un po’ aperto i libri sotto il caldo cocente dell’estate siciliana per fronteggiare la sessione d’esami di settembre con il dubbio che il proprio sforzo possa essere vano per la loro mancata attivazione.
Giovani studenti freschi di diploma si apprestano a svolgere i test di ammissione ai diversi corsi di laurea, ignari del fatto che quello scelto potrebbe all’ultimo momento non attivarsi per mancanza di organico. Potrebbe, perché tutto è rimesso alla decisione che prenderanno i ricercatori nelle modalità di continuazione della protesta contro i tagli che la c.d. Riforma Gelmini sta imponendo alle università.
Si è parlato tanto di questa protesta, in maniera più o meno consapevole in verità. Perché si sa, la stampa di regime e il bavaglio che attualmente attanaglia il sistema informazione, certe notizie non le fanno passare. E se lo fanno, in maniera del tutto distorta. E così, spesso chi legge i giornali non sa neanche di che cosa si tratti, a volte neanche gli studenti sanno di cosa si stia parlando.
Lo studente, in realtà, nella maggior parte dei casi, neppure conosce la figura del ricercatore universitario, assimilando coloro i quali vede dietro una cattedra in un’unica categoria, quale quella di “Prof”.
Solo adesso scopre che c’è una differenza tra i due. Solo adesso che i ricercatori, protestando contro l’ennesima legge porcata sulla scuola dell’attuale governo Berlusconi, minacciano di limitarsi a svolgere soltanto i compiti che la loro figura prevederebbe, facendo saltare corsi di laurea e sessioni d’esami.
Ma facciamo un po’ di chiarezza, cercando di definirne compiti ed anomalie nel nostro sistema.
Il ricercatore universitario è un soggetto istituito con il dpr 382/1980 col compito di partecipare allo sviluppo della ricerca universitaria, partecipando alle integrazioni dei corsi curriculari, alle esercitazioni e alle sperimentazioni di nuove modalità di insegnamento, agli esami di profitto solo come cultore della materia e seguendo le tesi di laurea senza partecipare, però, alle discussioni in qualità di relatore.
Così però non è stato – e da qui la difficoltà dello studente di capire chi fosse il professore e chi il ricercatore e quale fosse la distinzione tra le due figure: infatti, i ricercatori non si sono mai dedicati solo alle attività di ricerca, ma sono stati inseriti dai propri docenti di riferimento, cioè i titolari della cattedra, nella didattica anche se non in maniera ufficiale, per vere e proprie sostituzioni, parziali o anche integrali.
Le riforme successive ( Mattarella del 1990 e Berlinguer del 1998), nell’ampliare l’offerta formativa, hanno determinato un quasi totale utilizzo dei ricercatori nelle attività didattiche per far fronte ai nuovi insegnamenti. Con la prima di queste due riforme, infatti, i ricercatori confermati, ma solo con il loro consenso, potevano ottenere in affidamento supplenze di corsi e moduli, senza avere diritto ad alcuna riserva di posti a concorso.
La riforma Mussi del 2007, nel tentativo di riformare le classi di laurea di I e II livello, di ridurre il numero degli esami e di bloccare la proliferazione dei corsi di laurea, rese obbligatoria la copertura degli insegnamenti con almeno il 50% dei docenti. Questo avrebbe comportato la cancellazione della maggior parte dei corsi di laurea, visto che si era preoccupata di ridimensionare il ricorso ai professori a contratto nella regolamentazione degli stessi.
Il Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), pur di ottenere i requisiti minimi per l’attivazione dei corsi di studio delle università, conteggiò anche i ricercatori tra i docenti a tutti gli effetti, ponendosi in palese contraddizione con lo status giuridico del ricercatore, in base al quale questo può anche non accettare l’affidamento dei corsi di insegnamento e limitarsi soltanto alle attività didattiche integrative così come stabilito dalla normativa vigente.
Certo non si può ignorare come alla fine questa apertura della docenza ai ricercatori, tutto sommato non abbia dequalificato la didattica, portando anzi ad un miglioramento dell’offerta formativa dovuto alla presenza e all’apporto di giovani preparati.
In ogni caso è da sottolineare come questi incarichi siano stati inclusi entro incarichi didattici ed assegnati senza alcuna accettazione formale da parte dell’interessato ma attraverso un discutibile silenzio/assenso.


Con l’ultimo governo Berlusconi, si è tornato ad intervenire nell’ambito universitario e lo si è fatto, non tramite una riforma complessiva del settore, ma attraverso una legge finanziaria che ha comportato una riduzione di oltre un miliardo di euro tra il 2009 e il 2012 del fondo di funzionamento ordinario, giustificandolo con la necessità di riformare un sistema ormai al tracollo finanziario a causa dell’indebitamento di molti atenei che in maniera irresponsabile avevano gestito l’autonomia assegnata loro dalla legge 537/1993.
Tutto il mondo universitario a partire dal novembre 2008 è sceso in campo a protestare: studenti e docenti hanno posto l’accento sul fatto che nel momento in cui i tagli fossero stati realmenti posti in essere il mondo universitario avrebbe subito un irreversibile declino.
Dello status di ricercatore, di cui ci stiamo occupando, la riforma non si è minimamente interessata, nonostante nelle linee guida per l’università presentate nel novembre 2008, il governo aveva esplicitamente sostenuto che occorre «ripensare il ruolo dei ricercatori universitari, il cui stato giuridico non è allineato alla funzione che la gran parte di essi effettivamente svolge nelle università».
Un nulla di fatto, insomma, per questa categoria che in Italia ricopre ben il 35 % dei corsi universitari con le sue 61.885 unità.
Così, invece di riflettere attentamente sui ruoli della docenza con l’obiettivo di rendere migliore la ricerca e rendere efficace la didattica, si sta operando un taglio indiscriminato che relegherà il nostro sistema universitario agli ultimi posti.
I ricercatori, da parte loro, stanno per uscire allo scoperto: se realmente decideranno di rinunciare per il prossimo anno accademico al carico didattico non previsto per legge limitandosi esclusivamente alla ricerca e ai compiti previsti per legge, tutto il sistema italiano rischierebbe il collasso.
I primi ad essere toccati in modo tangibile sono gli studenti che ne subirebbero le conseguenze nel breve termine: gli esami e le lauree della sessione di settembre potrebbero anche saltare e, soprattutto, molti corsi verrebbero soppressi.
Anche il mondo studentesco è, del resto, in subbuglio preoccupato del fatto che questi tagli porterebbero alla scomparsa dell’università pubblica rendendo il sapere un qualcosa di elitario.
Le Università, infatti, subiranno la trasformazione in fondazioni private o in istituzioni sempre più piegate alla logica della concorrenza sul mercato: per l’Università di Palermo, per fare un esempio, si tratta di un rischio più che concreto, alla luce della crisi economico-finanziaria in cui versa l’Ateneo e in virtù dei tagli al FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario).
Tale trasformazione comporterebbe la fine dell’Università pubblica, la distinzione di fatto, e poi anche di diritto, tra poli universitari di eccellenza e strutture universitarie di serie B e, per gli studenti, in un sicuro consistente aumento delle tasse universitarie a fronte di una carenza di servizi e strutture già oggi intollerabile.
In ogni caso l’autonomia del sistema universitario viene svuotata concentrando esclusivamente nelle mani del rettore e del consiglio di amministrazione il potere di gestione degli atenei e assoggettando il ministero competente a quello dell’economia.
Per non parlare di ciò che attiene al consiglio di amministrazione. Qui è previsto che “almeno il quaranta per cento dei consiglieri” non appartenga “ai ruoli dell’ateneo a decorrere dai tre anni precedenti alla designazione e per tutta la durata dell’incarico” con la “previsione che il presidente del consiglio di amministrazione sia il rettore o uno dei predetti consiglieri esterni ai ruoli dell’ateneo, eletto dal consiglio stesso”, con le conseguenze che ne possono derivare sul controllo dell’attività di didattica e di ricerca di tutti i docenti da parte di soggetti esterni all’università, anche privati, per i quali tra l’altro non corre obbligo di fornire risorse all’università stessa nonostante il potere decisionale ad essi conferito.
L’università pubblica, del resto, non viene più indicata come “sede primaria della ricerca”, rendendo sempre più il sapere assoggettato all’economia.
Ecco che di fronte a tutto questo, ci si chiede quale sia l’alternativa possibile, cosa si possa fare per fermare questo sfacelo.
Mentre ci si prepara alla nuova ondata di protesta, il sindacato studentesco UniOn sta lavorando all’ultima strada possibile: una iniziativa di legge popolare che miri a riformare tutto il sistema universitario.
Ma questa potrebbe essere la soluzione se questo governo continua a non voler puntare sulla cultura e sui giovani?

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