giovedì 17 novembre 2011

100 anni - "Partigiani" - AdEst ricorda Salvatore Di Benedetto

in evidenza il manifesto della manifestazione organizzata dall'Anpi e dal centro Pier Paolo Pasolini che si terrà questa sera ad Agrigento


AdEst vuole ricordare la figura di Salvatore Di Benedetto affidandosi alle sue parole. Ripubblichiamo, per la prima volta, un articolo pubblicato dal partigiano ed esponente del Pci apparso su “La Voce della Sicilia” del 29 Marzo 1946, in occasione del suo ritorno a Raffadali, dopo l’esilio, la Resistenza, la Liberazione.



A RAFFADALI IL POPOLO HA VINTO

Salvatore Di Benedetto.


E’ un Paese di contadini poveri, di braccianti, di artigiani circondato dalle colline del Cattà, di S. Giorgio, del Mizzaro, dalle plaghe dei feudi. Ma il paese non ha baroni. Questi vivono lontano e i contadini, a migliaia, lavorano per essi. Vita magra, amara, in mezzo al vento e al sole. I contadini si sputano le mani, guardano la terra nera nella distesa brulla, al di là della cinta beneficata dei mandorli e dicono a denti stretti rivolti a qualcuno che non si vede: “Finirà, dovrà pur finire questa vita”. Che la vita, che questa vita finisca è un sogno che sta nel cuore di tutti gli sfruttati del paese. Non è un sospiro di rinunzia. A Raffadali è un grido di guerra, una parla d’ordine di lotta. Questa esistenza di schiavitù, di miseria, di sfruttamento deve finire!
I contadini poveri, i braccianti, le donne sono carichi di miseria, ma i loro occhi non sono carichi di umiltà. Essi sono uomini e sanno di esserlo. Sanno profondamente di esserlo. Lo sanno da anni, da lunghi, duri anni. E l’umiltà, la sottomissione non sono mai entrate nel loro cuore. Essi hanno vissuto aspettando, e resistere vuol dire lottare. Hanno lottato. E’ venuta la miseria, è venuta la guerra, è venuta la rovina, il tradimento, è venuta la morte. Hanno resistito, hanno lottato. Venivano gli sbirri del fascismo e facevano le loro sapienti retate. Veniva il proconsole Mori e con la scusa di liquidare la mafia, colpiva il cuore di ogni famiglia di contadino, di lavoratore, portava centinaia di ostaggi a marcire nelle carceri, portava centinaia di famiglie nella miseria, nella rovina. E il paese non si piegava.

Veniva la polizia, entrava di notte nelle case, portava via i difensori del popolo, gli operai, i contadini che si organizzavano e si preparavano alla lotta contro il tradimento e la rovina.

E il paese non si piegava.

Veniva la guerra, partivano a forza i giovani, sparivano in terre lontane nel silenzio e nella morte.
Piangevano le madri.
Il paese non si piegava.
Nelle botteghe degli artigiani, sui campi, i contadini allineati lungo i solchi dicevano, nel silenzio delle lunghe giornate, fra loro, a voce bassa: “Hanno arrestato il tale. E’ dei nostri. E’ col popolo. Lo hanno portato lontano. E’ in Africa e spacca le pietre sulle strade dell’Asmara. E’ all’isola di Ventotene. E’ nel carcere di Poggio Reale. E’ scappato via. Non si sa più nulla. Lo ricercano. E’ scappato di notte”. E infilzavano l’ago nelle stoffe, i giovani sarti. E brandivano le mazze sui ferri arroventati, i giovani fabbri e sputavano nelle mani nere i contadini e impugnavano le falci e brandivano le zappe sotto il sole alto.

Misteriosamente circolavano fogli stampati chi sa dove, chi sa come, distribuiti non si sa da chi. Portavano la voce del popolo, erano la voce del popolo. I contadini li voltavano, li rivoltavano, ripetevano le parole ad una ad una, crollavano la testa e guardavano lontano respirando il vento. Questa vita dovrà pure finire.

Ed è venuta la riscossa del popolo.

Raffadali, paese di sfruttati, ma di lavoratori che sanno di essere uomini.

Esso ha dato decine di vittime alla brutalità ed alla prepotenza del fascismo, ha tenuto sempre alta la dignità del popolo e la bandiera della libertà, issata sul suo campanile, ha sventolato finché il vento non l’ha portata via nei cieli di marzo, quando da anni la schiavitù dominava già sulle terre d’Italia.

Ma le bandiere del popolo sono ritornate.

Corteo di fanciulli scalzi e vestiti di stracci, tutti occhi, corrono attorno a queste bandiere. Donne con bambini in braccia, con i capelli lisci e scuri e le bocche severe, maschili che conoscono tutta la forza della fame e del sangue, vanno dietro le bandiere. E uomini, uomini scuri, con giacche, cappotti di soldati di ogni terra, uomini che sanno di essere uomini.

Un pulviscolo di fanciullezza spumeggia avanti, attorno alle bandiere del popolo. Donne che non hanno mai conosciuto altro angolo di terra oltre quello su cui hanno sudato e sanguinato insieme ai loro uomini, cantano l’Internazionale, Il Canto del Partigiano, l’Inno dei lavoratori. Il dolore le ha sbalzate dall’oscurità della miseria e dalla paura alle soglie dell’Umanità. Migliaia di fanciulli, migliaia di donne, migliaia di uomini di un piccolo paese di Sicilia tra le colline di dieci feudi, camminando dietro le loro bandiere. Settimane di passione, piove sui cortei, le strade sono sommerse dal fango, scivola la pioggia attraverso gli stracci, sulle carni. Colpisce sui visi i neonati, ma gli uomini vanno, le donne stringono alti sul petto i loro piccoli e vanno, i fanciulli affondano i loro piedi nudi nella melma e vanno. Avanti popolo!

Un uomo viene alzato quasi di peso dalla folla. Parla! L’Uomo parla. “Dobbiamo sollevarci dalla terra”. La folla cammina. Ancora e ancora, alza in alto l’uomo perché parli. E’ un tumulto di cose che il popolo vuol dire e vuol sentire: “Ricordate, madri, il vostro pianto!”. “Ricordate, uomini, il tradimento, la fame, il pianto delle vostre donne!”. “Dietro questo giorno di libertà, ci sono il sangue e le ossa dei vostri figli”. Il popolo cammina per tutte le strade e le piazze di Raffadali. Oh, Dio, prega una donna, dai salute e forza ai nostri uomini perché sulla terra conquistino la giustizia. E i loro occhi sono incantati e fissi sulla bandiera di sangue, alta nel vento.

Nessuno ha potuto parlare in quei giorni al popolo di Raffadali. Sono venuti uomini di tutti i partiti. Hanno pontificato, alcuni preti contro il partito del popolo dall’alto dei loro pulpiti. Ma il popolo non ha permesso a nessuno di tentare un’insidia contro la sua coscienza. Il popolo è rimasto padrone delle piazze e delle vie. Gli oratori, avvocati famosi, oratori brillanti, ripartivano senza aver potuto esercitare le loro gole. Il popolo voleva sentire la sua voce, la sua vera voce, quella che non poteva tradire. Issava sopra un balcone, sopra una scala, sopra un gradino i suoi figli e diceva: “Parla”. E i figli del popolo, i combattenti del popolo, gli artefici della libertà, gli ex carcerati. I perseguitati, i mutilati parlavano il linguaggio del popolo, rivestivano di parole di sangue il linguaggio del popolo, la volontà del popolo, davano una guida dritta e sicura al popolo. Questa è la via. Tutti i partiti erano contro il partito del popolo. Tutti contro uno, uno solo. E tutti uniti. E opponevano alla povertà del popolo la ricchezza dei padroni. Ed alla fame, il grano sottratto dai granai. Ed alla semplicità onesta, i raggiri, la prepotenza e l’inganno. Ed al sentimento religioso il fetore della scomunica. Il paese non si è piegato. Il popolo di Raffadali era solo, dietro una sola bandiera, contro tutte le forze del passato. E questo popolo ha vinto. Per la salvezza della nostra terra, occorre che questa sia una vittoria di tutta la Sicilia, di tutto il popolo d’Italia.

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Salvatore Di Benedetto (Raffadali, 19 novembre 1911 – Raffadali, 1 maggio 2006) è stato uninsegnante e partigiano italiano. È stato uno dei personaggi più rappresentativi della generazione che si oppose al fascismo e che dopo aver combattuto la lotta partigiana, si impegnò nella costruzione della Repubblica.


Nato da una facoltosa famiglia borghese di Raffadali, già da studente in Giurisprudenza, in pienoregime fascista, aderì a idee antifasciste e legate all'ideologia comunista, guidato in questo da un suo illustre conterraneo, Cesare Sessa, che fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia dopo il congresso di Livorno del 1921.


Arrestato nel 1935 dal regime fascista e condannato in quanto comunista al confino, scontò la pena sull'isola di Ventotene, dalla quale veniva condotto in catene a Palermo per sostenere gli esami per il conseguimento della laurea in Giurisprudenza. Una parte della sua condanna la scontò nel Corno d'Africa, dove venne inviato ai lavori forzati per la costruzione delle strade e delle altre opere del regime fascista in seguito alla guerra d'Etiopia.

Tornato in Italia non si fermò a Raffadali ma cercò di raggiungere il nord del paese allo scopo di mettersi in contatto con il Partito Comunista in clandestinità per preparare la lotta contro il fascismo.

Durante il periodo della guerra e, in particolare, dopo l'8 settembre 1943, Salvatore Di Benedetto fu tra gli organizzatori delle attività del Partito Comunista Italiano nel nord e nel centro del paese. AMilano, entrato in contatto con i compagni comunisti partecipò alla redazione clandestina del'Unità, entrando in rapporti di collaborazione e di amicizia con Elio Vittorini, Pietro Ingrao, Renato Guttuso, Pompeo Colajanni, Mario Alicata, Ernesto Treccani, Gillo Pontecorvo, Celeste Negarville,Giansiro Ferrata, Giancarlo Pajetta.

Queste vicende milanesi furono raccontate da Di Benedetto nei suoi libri, ma testimonianze significative se ne trovano anche in Diario in pubblico di Vittorini, nella Storia del Partito Comunistadi Paolo Spriano e nell'ultimo libro di Pietro Ingrao, Volevo la luna (2006), nel quale la figura di Salvatore Di Benedetto è ricordata con commozione e con parole di profonda ammirazione.

Le qualità di organizzatore di Di Benedetto ne fecero uno dei promotori delle iniziative della Resistenza milanese, in particolare della grande manifestazione del 25 luglio 1943 che seguì la caduta di Mussolini. Tuttavia le autorità di polizia arrestarono i promotori di quella manifestazione e, tra questi, Salvatore Di Benedetto, insieme a Vittorini e Ferrata. Dopo la fortunosa liberazione, in seguito ai fatti dell'8 settembre 1943, Di Benedetto, tornato in clandestinità, continuò a essere tra i principali organizzatori dell'attività clandestina del Partito Comunista Italiano in Lombardia, occupandosi di tenere i contatti tra la struttura del partito e le diverse brigate partigiane impegnate nella lotta contro la Repubblica di Salò.

Per queste sue capacità organizzative fu scelto per collaborare alla riorganizzazione del partito nelLazio e a Roma in particolare. Si impegnò così in attività strettamente politica ma non trascurò anche la partecipazione ad azioni dirette a sostegno dell'avanzata alleata. Durante una di queste azioni una bomba a mano gli esplose vicino al volto devastandoglielo e privandolo di un occhio. Durante la lunga convalescenza rafforzò l'amicizia e l'amore con la donna che sarebbe stata la compagna di tutto il resto della sua vita, la giovane staffetta partigiana Vittoria Giunti.

Dopo aver partecipato alle feste per la Liberazione (in alcune foto lo si vede con il volto ancora fasciato dalle bende), torna in Sicilia per riprendere nella sua terra la lotta politica in previsione della nuova stagione che si stava già profilando. Fu così uno dei protagonisti della lotta dei contadini siciliani per la conquista delle terre e l'abolizione del Feudo, combattendo una battaglia di occupazione delle terre a fianco dei contadini, mettendo così ancora una volta a rischio la sua vita, in un contesto, quello della provincia di Agrigento, nel quale la mafia uccise, nello stesso periodo, numerosi sindacalisti e uomini politici impegnati nella medesima battaglia. Questo coraggio e il suo ruolo nella conquista delle terre gli valsero da parte dei contadini raffadalesi un affetto che gli fu tributato per tutto il resto della sua vita.

A Raffadali si impegna anche nella attività politica nel paese, dapprima collaborando con Cesare Sessa, sindaco di Raffadali nel primo decennio del secondo dopoguerra e, poi, succedendogli nella carica di sindaco del paese a partire dal 1954, carica che mantenne per trenta anni[1], alternando gli impegni di sindaco del proprio paese di origine con gli impegni di deputato per svariate legislature del Partito Comunista Italiano.

Da sindaco di Raffadali si fece promotore di innumerevoli iniziative di carattere sociale e culturale. Alla sua azione politica si devono, ad esempio, l'istituzione della Biblioteca Comunale, la creazione del Villaggio della Gioventù, la creazione del Piano Regolatore Generale (primo comune della provincia). Fu grazie alla sua passione che Raffadali divenne uno dei più importanti centri italiani in cui si festeggia il 1º maggiocon manifestazioni di carattere folcloristico, politico/sindacale e ricreativo.

Gli interessi di Salvatore Di Benedetto furono molteplici in diversi campi. Fu scrittore, poeta, studioso di tradizioni popolari, raccoglitore di reperti archeologici (che donò alla Biblioteca Comunale per l'istituzione del Museo Archeologico comunale di Raffadali, annesso alla stessa Biblioteca), collezionista di ceramiche. Appassionato studioso di storia locale, raccolse nella sua antica casa al centro del paese una ricchissima collezioni di libri rari e di studi, spesso inediti, sulla storia di Raffadali e della Sicilia.

Negli ultimi anni si dedicò ad altre attività. Si adoperò, da presidente della Biblioteca Comunale, per il suo continuo aggiornamento, si impegnò, anche negli ultimi anni della sua vita, ormai molto anziano, a recarsi nelle scuole per raccontare ai giovani le sue esperienze partigiane e per testimoniare la passione per la libertà che lo aveva portato a combattere tutte le sue battaglie.

La morte avvenne, per singolare coincidenza, durante i festeggiamenti del 1º maggio 2006 a Raffadali. Per espresso desiderio della famiglia le celebrazioni del 1º maggio continuarono nonostante il lutto cittadino. Moltissimi concittadini si recarono nella camera ardente, allestita nella Biblioteca Comunale e parteciparono ai funerali. Soltanto un mese dopo moriva anche la moglie Vittoria Giunti, che gli era stata vicina tutta la vita[2].

Opere

Dalla Sicilia alla Sicilia. Sellerio, 2008. ISBN 978-88-7681-165-4



1 commento:

Anonimo ha detto...

Paolo Giovanni Tarallo in : Anche Raffadali ha avuto il suo “Che Guevara”. Penso che il modo migliore per ricordare questo grande uomo sia quello di condividere quello che era il suo pensiero. Se si lascia un buon ricordo si rimane sempre vivi nella mente della gente.