di Michelangelo La Rocca
Il
lavoro,giustamente individuato dal Costituente come valore fondante
della Repubblica Italiana, insieme alla grave crisi finanziaria ed
economica che attaglia l’Italia e gran parte della vecchia Europa,
è stato ed è il tema di cui più si discute in questo momento
travagliato della nostra storia.Si discute
del lavoro che non c’è :la disoccupazione ha toccato percentuali
altissime specie tra i giovani ed in particolare nel nostro Sud.
Si dibatte
anche della qualità del lavoro: quello flessibile e precario, privo
di dignità e che nega il futuro alle nuove generazioni, rischia di
diventare l’insanabile e purulenta piaga del nuovo millennio.Si parla,e
da tempo,della riforma dello statuto dei lavoratori, vera pietra
miliare lungo il percorso accidentato ma esaltante che i lavoratori
hanno dovuto compiere per la loro emancipazione ed il loro riscatto
negli indimenticabili anni sessanta e settanta dello millennio appena
trascorso.
Sono
passati quasi quarantenni da quando nel maggio del 1970 vide la luce
la legge n.300 del 20-5-1970 ( il c.d. statuto dei lavoratori) ma, se
si guarda alla stagione delle rivendicazioni e della conquista dei
diritti dei lavoratori, sembra essere passato più di un secolo:
all’incontrario però!Non perché,
infatti, lo statuto dei lavoratori sembra superato ed antiquato, al
contrario pare essere diventato un frutto proibito, un lusso che non
possiamo più consentirci.
Ma è
proprio così?
Ha fatto e
fa in particolare discutere l’art.18 dello statuto dei lavoratori
che da qualcuno, soprattutto dalla destra economica e dalla
confindustria, è stato additato come la causa frenante dello
sviluppo economico od addirittura come il principale ostacolo ad una
maggiore e migliore occupazione! Ma cosa
dice questo articolo dello scandalo? Esattamente
questo, solo questo: “il giudice, con la
sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento o annulla
il licenziamento intimato
senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità,
ordina al datore di lavoro di reintegrare
il lavoratore nel posto di lavoro”. Norma, come
si vede, di assoluta e lineare civiltà giuridica che non può non
trovare il suo giusto posto nell’ordinamento di uno Stato che
voglia essere moderno e civile.
Un
lavoratore non può e non deve essere lasciato in balia del arbitrio
del datore di lavoro, ma deve avere la certezza che può essere
licenziato solo e soltanto in presenza di una giusta causa o di in un
giustificato motivo altrimenti è condannato a perdere la sua dignità
di uomo, di persona. Senza la
deterrenza del baluardo dell’art.18 il lavoratore è destinato a
vivere nella più assoluta schiavitù del bisogno ed è costretto a
rinunciare alla sua libertà, quella libertà, non scordiamocelo, che
distingue l’uomo dagli altri esseri del regno animale. Per questo,
e soprattutto per questo, avremmo preferito che i sindacati uniti e
tutti i partiti riformisti e di sinistra avessero difeso in modo
compatto l’assoluta ”immodificabilità” dell’art. 18. Così non è
stato e sembra che così non sarà neanche in futuro.
Va dato
atto al P.D. , al tanto vituperato P.D., che in questo passaggio
epocale della nostra stagione sociale ed economica non ha perso il
collegamento con il mondo di lavoro ed ha saputo difendere, sembra
con successo, almeno il principio dei reintegro lasciando che sul
diritto al reintegro a pronunciarsi sia il giudice.Forse non è
molto, ma in certi frangenti bisogna sapersi accontentare: il
principio, almeno il principio,è salvo!
Il resto,
tutto il resto, dobbiamo conquistarcelo con la lotta vigile e
costante di ogni giorno, di ogni giorno dei prossimi mesi e di tutti
i mesi dei prossimi anni.
E questo
primo maggio 2012 deve essere la prima battagliera tappa di questo
esaltante percorso di lotta!
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