domenica 18 aprile 2010

25 aprile..sempre...La testimonianza di Domenico Richiusa

Incontro con Domenico Richiusa, di Alimena, nato l’11 aprile 1922, a Bompietro, testimone vivente della II Guerra Mondiale, prigioniero in Germania dal 1943 al 1946.

D.R.:
Partii il 12 gennaio 1941.
Ricevetti la lettera una quindicina di giorni prima di partire. Io, giovanissimo di 19 anni costretto a partire per la Guerra.
Fui assegnato al XVII Reggimento di Fanteria a Silandro in Provincia di Bolzano. Dal 12 gennaio fino al 21 aprile fummo a Silandro e poi partimmo per la Jugoslavia a Crocevia in Provincia di Lubiano e lì passò la mia vita dalla fine del ’42 all’inizio del ’43 prima di essere trasferiti con tutto il Reggimento in Croazia, naturalmente a piedi non a cavallo. Durante la Guerra ho combattuto nei territori della Jugoslavia e della Croazia. Noi eravamo contro la Russia e gli slavi. Durante gli attacchi fui colpito da una bomba a mano alla gamba. Sono stato più di 40 giorni in ospedale. Era il giorno della Maddalena, la nostra Santa Patrona e fui protetto dal Signore, poteva finirmi peggio Con l’entrata degli americani nel ‘43 ci fu la capitolazione dell’Italia e ci trovammo senza Dirigenti. Si erano dati alla fuga. Fummo arrestati, processati e a piedi ci condussero, nel giro di una settimana a Fiume, allora Riec. Lì ci dissero che ci dovevano portare in Italia, ma eravamo già in Italia. Invece siamo finiti in Germania dove sono stato fino al 1946. Lì ho vissuto tempi tristi. Pensate che pesavo 39 chili. Ci tenevano digiuni, quando c’era festa ci davano tre patate grandi come le uova di pernice. I tedeschi, sotto la neve ci facevano girare attorno ai dormitori col materasso in testa. Ci facevano lavorare dodici ore al giorno, lontano da dove venivamo a dormire. Il primo lavoro fu nello stabilimento di zucchero. Alcuni direttamente nelle barbabietole. Io ero messo a scaricare i sacchi con lo zucchero, fino al Natale del 1943. Dopo Natale ci portarono ad ArbeStadt. Lì ci misero alla costruzione delle ali degli aerei. Facevamo nove ali alla settimana. I vagoni con le ali entravano e uscivano col lavoro da svolgere e quello svolto. E stavamo digiuni.
Lì lei ha avuto paura di non tornare dalla sua famiglia?
E si. In quei casi i sentimenti devono concentrarsi su qualcosa per sopravvivere. Io pensavo ai miei quattro fratelli. Era come se ogni sopruso subito dalle canaglie tedesche lo facessero a loro. Il lavoro era pesante. Io ero al montaggio delle ali Pensate che il primo ferro che si monta per l’ala pesava 35 chili, quasi quanto pesavo io. Dovevo prenderlo solo e riuscire a montarlo secondo le indicazioni. Lì sono stato per 20 mesi. Poi ci inquadravano in tre capannoni di 9 chilometri di circonferenza. Ci stringevano lì. Ricordo uno con una gamba di legno e uno con un braccio, essi ci tenevano lì stretti. Appena passò la prima squadriglia di aerei, un caccia si butta in picchiata su di noi e così noi ci tuffammo giù con grande paura. Così vidimo una serie di carte, volantini, in cui si leggeva: “Coraggio Fratelli, vi abbiamo riconosciuto. Siete italiani, ormai vi devono togliere di qua. Se non vi tolgono loro veniamo noi”. Per tre volte ci fu il lancio di volantini. La terza volta venne la Croce Rossa. A questo punto prima dell’arrivo dei nuovi aerei ci portarono nel bosco e abbatterono la fabbrica dove lavoravamo.
Ricorda il giorno della Liberazione vera e propria?
Quando entrano gli Americani io ero coi civili, lavoravo. Tuttavia lì c’era il Battaglione che lavorava coi Tedeschi. Quella mattina non si vide nessuno, per tutto il giorno non si vide nessuno. Il giorno esatto non lo ricordo. Io assieme ad altri due compagni ci siamo allontanati e ci siamo avvicinati ad un lago lì nei pressi. Li ci fermammo per tre giorni. Al terzo giorno arriva una camionetta con gli Americani e uno di loro parlò napoletano e ci disse: “Ehi guagliù, domani veniamo a prendervi” . L’indomani arriva un americano con una Jeep. Ci portò i vestiti poiché eravamo nudi. Ci siamo vestiti, ci siamo messi in movimento verso il Comando Americano. Lì ci offrirono i cioccolati, cose americane.
Dove lo hanno portato dopo?
A questo punto fecero un campo di smistamento e ci riunirono tutti. Da lì partiva la prima tradotta per l’Italia. Io allora, forte del fatto che conoscevo un po’ il tedesco andai un po’ in giro. I civili ci davano da mangiare e vestire. Così ci portarono al campo di smistamento per l’Italia a Bolzano. Lì trovai un ex soldato di Villa Rosa in provincia di Enna, vicino Alimena. Questi mi disse che doveva partire una tradotta al giorno per l’Italia di 1500 militari. A sera mi ritrovai nel posto dove ero già stato prima di essere portato in Germania. L’indomani fecero l’appello per le partenze. Poiché molti mancavano all’appello, io dissi che sarei partito. Partii per Bolzano. Scesi dal treno, i Dirigenti ci portarono a Verona dove ci condussero in ospedale, ci rifocillarono e ci tennero lì per un mese per controllarci e rimetterci in sesto. Dopo quel periodo fecero una tradotta per la Sicilia. I siciliani lasciammo quel luogo e ricordo ancora quando passammo per Foggia, era giugno. Il treno fu messo in linea morta. Lì c’erano i mietitori. Tra di noi c’era uno di lì, a quel punto i contadini lasciarono le falci e andarono incontro al militare ad abbracciarlo e uno di loro gli disse in maniera ironica di mettersi subito a lavorare: “Ti manciassiru i cani, vinisti, mittati a travallari”. A Foggia ci diedero da mangiare e poi ci il treno si mise di nuovo in movimento fino a quando arrivai a Catania e lì ci offrirono l’uovo crudo. Da Catania presi il treno merci e arrivai ad Enna e da lì il treno locale per Villa Rosa. Arrivavo a Villarosa, come un prigioniero di Guerra e a sentirlo, la gente si avvicinava mi attorniava e mi offriva di tutto. Ma non potevo mangiare niente, qualsiasi cosa mangiavo mi veniva la diarrea, tanto ero debilitato. Da Villarosa un carrettiere mi caricò sul carretto con la mia cassetta con una pelle che faceva da valigia, presa durante un rastrellamento. Lui si dirigeva a Villa Priolo. Durante il tragitto mi faceva domande, mi chiedeva come era la Germania come mi avevavo trattato. Lì nelle campagne di San Giovannello c’era un paesano, il suocero di Antonio Polizzi, che voi conoscete. Costui mi riconobbe dalla voce e mi disse: “Parè, non vi preoccupate che stasera ti porto io a casa”. Io contento mi misi a sedere, mangiammo un po’ di pane. Poco, poiché u pitittu si vidiva curriri. Finito il loro lavoro partimmo. Io subito mi informai della mia famiglia. Erano oltre quattro anni che non avevo loro notizie., se fossero vivi o morti. Lui mi tranquillizzò subito, stavano tutti bene. Mio fratello Pietro, più grande di me che come me era partito per il fronte, all’Armistizio si trovava a Gela così potè fuggire e a piedi arrivò a d Alimena. Lì si nascose in campagna a Chiappara. Fecimo la strada per Cunsillu e arrivammo a Chiappara. Un po’ a cavallo un po’ a piedi, ma arrivati a Tre Archi, dall’emozione, dal nervoso, non potevo stare né a cavallo alla mula né in piedi. Arrivammo in un pezzo di terra con i pini e tante persone, c’era u muntirussanu, u gangitanu, mirringhiulu, tutti là. A pochi metri scopro c’era mio fratello con la mula che prendeva l’acqua e con la mia voce alta dico “ccà iè ma fra!” Nel frattempo la giumenta che avevo lasciato a cinque anni, e ne aveva al mio ritorno dieci anni, sente la mia voce e al galoppo, con la lingua di fuori mi viene incontro ad accarezzarmi dalla testa ai piedi. I paesani accorrono ad abbracciarmi e subito ci incamminammo verso casa e la cavalla si metteva avanti e cercava l’appoggio per farmi salire a cavallo. Per me è indimenticabile. (Domenico Richiusa ha gli occhi lucidi dalla commozione ed anche noi che ascoltiamo n.d.r.).
La mia famiglia nel frattempo sapeva che io ero vivo e che dovevo fare ritorno perché quando io avevo incontrato il soldato di Villa Rosa diedi lui un biglietto con su scritto il mio nome e lui lo fece recapitare alla mia famiglia.
Ci vuole parlare dei trattamenti da prigioniero?
Dio ci deve liberare a tutti dalla Prigionia. Il prigioniero è schiavo. All’uscita dal campo di smistamento eravamo 111 persone. Molti malati furono portati in ospedale, ma molti non ritornavano. I miei compagni non tornarono. Io fui molto fortunato. Il mio compagno francese mi portava ogni giorno due belle fette di pane col burro o con altro e così io ce la feci.
Ha mai pensato di scappare mentre era prigioniero?
Io mi arrangiavo a parlare. Allora me la cavavo. Ci fu uno che scappò perche si era rifiutato di spegnere la sigaretta, ma fu preso, picchiato e messo ai lavori forzati. Così capivamo che non era conveniente scappare.
Cosa ha provato quando ha capito che tornava a casa?
E’ stato bellissimo. Non c’è niente di più bello che tornare a casa. Anche stasera quando tornerò a casa sarà bello.
La sua famiglia era ricca o povera?
La miseria esisteva, ma il pane, mio padre, non ce la faceva mancare.
Ha fatto il partigiano?
Il partigiano non lo potevo fare perché ero prigioniero. Pensate che la sera ci toglievano pure le scarpe per evitare la fuga.
Cosa è cambiato nella sua vita dopo questa esperienza?
Posso dirvi che oggi se vedo qualcuno che butta il pane mi addoloro e lo raccolgo per portarlo ai cani alle galline, perché io ho conosciuto la fame e la guerra, è importante che ve lo racconto.
Io sono stato pure emigrato in Germania, ho lavorato in Ferrovia e non avrei mai creduto che dopo venti anni sarei potuto andare in pensione. Un giorno raccontai ai miei dirigenti che fui prigioniero. Mi illuminarono dicendomi che se avessi trovato i documenti che certificavano la mia esperienza io sarei potuto andare in pensione prima.

Alimena 9 maggio 2008

Mirella Mascellino
Domenico Richiusa ha accettato il mio invito ed è venuto a scuola ad incontrare i miei alunni, i quali da questa intervista hanno poi fatto un articolo su Espero MESE DI GIUGNO 2008

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