Stampa minore? No, stampa di frontiera. Chi ricorda i vecchi film western, sa che in ogni villaggio, accanto al saloon, alla banca e all’ufficio dello sceriffo, c’era sempre un giornalista-tipografo che stampava il suo giornale. In genere, ad ogni rissa, la tipografia era la prima che andava in frantumi. E il direttore ricominciava il giorno dopo a stampare i suoi quattro fogli stinti d’inchiostro. Mi piace pensarli così i nostri piccoli giornali di questa frontiera a sud del sud dell’Italia. Ho cominciato il gioco del giornalista che poi è diventato mestiere in un giornale così, simile a questo, ormai quasi trent’anni fa. Un giornale che si pubblica ancora, e lo stesso augurio di resistere per almeno altri vent’anni faccio ai colleghi di “Ad Est”. Stampavamo a piombo, in un paese piccolo e dimenticato, ma credevamo che le parole fossero un modo per testimoniare delle nostre vite, delle nostre inquietudini, delle nostre rabbie. Da allora, ogni testata minore – di frontiera, appunto – mi smuove antiche tenerezze, nuove solidarietà. Per uscire dall’inferiorità della definizione di “stampa minore”, reinventammo l’eroica e un po’ garibaldina immagine della stampa di frontiera. Credo che questa nostra provincia, questi nostri paesi, siano ancora frontiera: della legalità, dell’onestà, della correttezza pubblica, su un confine lungo il quale, spesso, mancano appunto legalità, onestà e correttezza. Ho letto alcuni numeri di “Ad Est”, ne ho intravisto la forza battagliera, l’impegno intellettuale. Magari anche certi furori, magari anche certi pregiudizi. Ma un giornale di frontiera deve essere così, a volte duro e urticante. Posso capire che questo giornale non piaccia a tutti. “Più minacce che lettori”, hanno scritto i fondatori. E questo non va bene. Ma è vero pure che i giornali di frontiera – e oggi anche i blog, le televisioni locali, le radio e tutti quelli che fanno informazione locale - finiscono per essere coscienze critiche, a volte inascoltate, ma necessarie per assaporare boccate di libertà. Si può anche non essere d’accordo con quello che viene scritto e pubblicato, ma credo sia un dovere morale sostenere e difendere una testata, anche e quando non ci piace. Capisco che di questi tempi è frase ingenua. Ma preferisco cadere nel peccato dell’ingenuità piuttosto che nel vizio del cinismo. Dell’esperienza di avere cominciato in un giornale di frontiera che parlava ad una platea ristretta, mi è rimasta la consapevolezza che è il mestiere più difficile. E’ difficile criticare qualcuno, sapendo che il giorno stesso lo incontrerai per strada. E’ difficile dare notizie che toccano interessi diretti, relazioni familiari, rapporti di amicizia, in una ragnatela fitta rispetto alla quale ci si muove sempre tra il rischio di restarne imprigionati a quello di rimanerne emarginati. Ancor più difficile è criticare amministratori che non amano essere criticati e hanno mezzi e strumenti per reagire, isolare e colpire. Ancor più rischioso è parlare non di mafia, ma di mafiosi in carne e ossa, che sono nostri vicini di casa, compagni di scuola, conoscenti da bar. Ecco perché molti dei giornalisti minacciati, in Sicilia, sono impegnati sulle cronache locali, nei luoghi dove è complicato e pericoloso scrivere di chi ci conosce bene, conosce le nostre famiglie, le nostre case, le nostre abitudini. Ecco perché i cronisti di frontiera sono i più vulnerabili, e per questo meritano il nostro sostegno pieno. Il giornalismo di frontiera è stata la mia palestra di formazione, un po’ da autodidatta, come spesso avviene, ma in una cerchia di amicizie e di affinità che ancora resiste. Per spezzare la nostra “minorità”, un giorno del 1985 convocammo a Racalmuto tutti quelli che in provincia di Agrigento si cimentavano nelle piccole testate di frontiera. Fu un incontro interessante, un confronto di esperienze che avevano il tratto comune dell’orgoglio individuale e della sensazione di muoversi in un territorio infido. Quella giornata fu conclusa da un intervento di Leonardo Sciascia. Ricordo le parole finali di quella “lezione” del maestro di Regalpetra: “I giornali locali dovrebbero fare opposizione seria sui fatti quotidiani, sulle cose da fare, prendendo così il ruolo di opposizione vera che in molte amministrazioni viene mancando. Opposizione quindi non per principio, per il gusto di farla: ma opposizione sulle cose concrete”. Opposizione, dunque. Perché questo deve fare un giornale di frontiera: buona opposizione.
* Gaetano Savatteri ha scritto per Giornale di Sicilia, l’Indipendente, Tg3. Dal 1997 è giornalista al Tg5. Autore di diversi libri per la Sellerio
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