Povertà, istruzione, social network: agitando per bene questi tre fattori si ottiene un mix esplosivo che nel mondo arabo è giunto a mettere in discussione anche i rais più autocratici.
E’ accaduto prima in Tunisia e poi, a catena, in Egitto, nello Yemen…domani chissà!
Le piazze delle loro capitali si sono sollevate per chiedere libertà, lavoro e benessere economico e riforme democratiche. Richieste giuste, sacrosante contro regimi cristallizzati che parevano eterni.
Stranamente, però, le proteste si sono scatenate nei Paesi più poveri, anche se i più carichi di cultura e di storia.
Nulla, invece, si è mosso nelle cosiddette “petro – monarchie”, nei paesi grandi produttori d’idrocarburi. Come se qui tutto andasse nel migliore dei modi.
In realtà, non esistono Costituzioni, Parlamenti, elezioni (nemmeno col trucco), libertà civili e religiose, e i cittadini, soprattutto le donne, vivono dentro un medioevo lugubre e penoso, senza speranza di rinascimento.
Eppure, nessuno, in Occidente e in estremo Oriente, osa disturbare, censurare, diffidare il manovratore ossia quella caterva di re, sultani, emiri e loro corti al seguito il cui potere deriva dal sottosuolo dove si nascondono enormi riserve petrolifere e di gas.
Quasi che la libertà non fosse un valore universale inalienabile, ma una merce da barattare con altre merci, caso per caso.
La transizione democratica, l’uguaglianza fra uomini e donne, la tolleranza, la convivenza fra culture e religioni diverse?
Se ne parlerà alla prossima rivolta. Due pesi e due misure?
Soprattutto, a me pare, un’incorreggibile miopia politica dell’Occidente che non riesce a vedere oltre il barile di petrolio
La “rivoluzione” degli internauti
E così, oggi, abbiamo le piazze di alcune importanti capitali arabe invase dalle proteste sacrosante soprattutto di studenti, diplomati e disoccupati.
Nessuno l’aveva previsto. Nemmeno i potenti servizi segreti. I giornali, le Tv, che raramente si sono occupati di questi paesi, per altro, a noi vicini, le hanno frettolosamente battezzate “rivoluzioni”, aggiungendovi una bizzarra tipicità locale (quella tunisina l’hanno chiamata dei gelsomini) quasi a volerla ingentilire per non spaventare nessuno in Occidente.
In realtà, si tratta di rivolte espressione di uno stato d’animo colmo di rabbia e di amarezza accumulate nel tempo, di una condizione sociale che, finalmente, insorge contro le ingiustizie e le più sfacciate ricchezze.
L’obiettivo è chiaro: cacciare i tiranni a capo di regimi autoritari e corrotti, garantire la libertà per tutti e riformare i sistemi elettorali fatti su misura per il rais di turno.
Il dato nuovo di queste sorprendenti proteste è la presenza dei giovani in gran parte istruiti e disoccupati.
Soprattutto di quelli appartenenti alla fascia intermedia, fra i 18 e i 29, che secondo l’analista Abdel Moneim Said, (“Ahram-hebdo” del 2/2/2011) costituiscono il 23, 5% della popolazione ossia 19,8 milioni di unità. Il 36% di questi giovani raggiunge la scuola secondaria tecnica, mentre il 28% l’ insegnamento superiore.
Giovani che hanno un rapporto molto intenso con Internet e con i network. Secondo un rapporto “Il mondo elettronico in Egitto”- citato da Said- il numero degli utenti d’Internet è passato da 300.000 del 1999 a 14,5 milioni del 2009 a oltre 22 milioni nel 2010.
L’Egitto è in testa ai paesi arabi per utilizzatori di Facebook e Youtube, mentre i blog egiziani corrispondono al 30,7% dei blog arabi e allo 0,2% dei blog mondiali.
Sarà, forse, per questo che taluni hanno proclamato leader della rivolta, icona del nuovo Egitto, un giovane dirigente di Google in Medio Oriente, Wael Ghonim, arrestato e rilasciato dietro le potenti pressioni del governo Usa.
Prudenza, signori inviati! Il mondo non è solo quello virtuale. Anche Bin Laden e i suoi seguaci usano Google e i social-network.
Per altro, la crescita della componente giovanile egiziana internettizzata, - sostiene Said- denuncia un fenomeno relativamente nuovo : quello dei “giovani ideologici”.
“In effetti, diversi indicatori, rilevano come certi gruppi di giovani cominciano ad adottare visioni e ideologie che si basano su concetti religiosi. E così sono apparsi i giovani salafisti, i giovani della Fratellanza e i giovani copti.”
Egitto: i due fantasmi più temuti
Comunque sia, la protesta resiste, anzi si allarga ad altri settori sociali e città egiziani. Tuttavia, non si va oltre le richieste di dimissioni di Mubarak e di annullamento delle recenti elezioni politiche. Stenta, cioè, ad emergere una piattaforma programmatica globale capace di aggregare uno schieramento sociale e politico alternativo al blocco di potere dominante.
L’Egitto è un Paese - chiave del mondo arabo, con oltre 80 milioni di abitanti, è uno dei più popolosi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Un paese di contadini, d’impiegati pubblici, di operai e con un ceto medio diffuso. Un paese povero, a tratti disperato, col 40% della sua popolazione che, statisticamente, vive con meno di due dollari il giorno.
L’economia egiziana è fragile poiché si regge su tre pilastri fortemente influenzati dalla contingenza internazionale: il turismo, le rimesse degli emigrati e le entrate del Canale di Suez.
La domanda che molti si fanno è la seguente: quanto di questo Egitto è presente in piazza Tahrir?
La piazza è ritornata piena, tuttavia fuori di essa c’è una moltitudine che guarda, inquieta, in attesa di conoscere il corso risolutivo degli eventi.
Cosa è questa calma apparente? Una tregua o l’anticamera di una reazione violenta ?
O, forse, un segnale che oltre non si può andare?
E’ difficile dare risposte esaustive a queste e ad altre domande, tuttavia bisogna mettere in conto il timore di molti per un cambio radicale che farebbe materializzare i due fantasmi oggi più temuti in Egitto e dalla comunità internazionale: il crollo dell’economia e il dilagare, sul terreno politico ed elettorale dei “Fratelli musulmani”, l’unica forza politica e culturale realmente alternativa al regime di Mubarak.
I Fratelli Musulmani
Per quanto moderata e defilata da piazza Tahrir, nessuno sottovaluta (semmai qualcuno sopravaluta) il peso di questa potente Associazione che, dal 1928, (anno della sua fondazione) lavora per plasmare con la sua ideologia islamista la società e i settori più sensibili della cultura, dell’amministrazione, delle professioni e delle forze armate egiziani e di altri Paesi del Maskrek quali Giordania, Siria, Yemen, ecc.
Non potendo sconfiggere la Fratellanza sul terreno del confronto politico e del consenso di massa, i regimi l’hanno messa al bando anche se l’hanno tollerata e talvolta usata per combattere le spinte laiciste provenienti dai settori progressisti e di sinistra della società.
Solo le forze armate sono state capaci di tenerla a bada,
Così è stato dal 1954, da Nasser fino a Mubarak.
Oggi, in Egitto, la Fratellanza è sempre molto forte e bene organizzata. Secondo gli specialisti, conterebbe circa due milioni di aderenti, mentre nelle penultime elezioni politiche (2005) le sue liste “indipendenti” hanno ottenuto il 20% dei voti e 88 seggi in Parlamento. Un risultato importante visto che non era presente con i propri simboli e programmi e considerati i meccanismi truffaldini del sistema elettorale egiziano.
Nelle elezioni del 2010 l’Associazione ha deciso di non parteciparvi per protesta contro i brogli e le pressioni indebite degli apparati di regime il quale così si è assicurato circa il 90% dei seggi in Parlamento.
Comunque sia, oggi, la Fratellanza resta la principale forza di opposizione anche se divisa al suo interno. Negli ultimi anni è in atto un duro confronto fra tendenze riformatrici e conservatrici che, nel gennaio 2010, ha portato ad un cambio di “Guida”.
Il nuovo leader è Mohamad Badie, un medico pragmatico appartenente al “gruppo del 1965”, l’anno della repressione nasseriana in cui fu arrestato con altri fratelli puri e duri fra i quali Sayyid Qutb, il vero, grande teorico dell’islamismo radicale moderno, a sua volta condannato a morte e giustiziato nel 1966.
Un nome sconosciuto quello di Qutb in questo stravagante Occidente che ha promosso disastrose “guerre preventive” per sconfiggere l’islamismo radicale e terrorista, senza prendersi la briga di conoscere le loro principali fonti d’ispirazione.
La Fratellanza in posizione d’attesa?
Ma questa è un’altra storia. Anche se, come scrive May Al-Maghrabi, su Ahram Hebdo del 20/1/10 a commento del cambio di Guida, “i fratelli musulmani sono uniti sull’instaurazione di un sistema fondato sull’Islam e la Charia (legge coranica), ma sono profondamente divisi sulla strategia da tenere. I conservatori vogliono mettere l’accento su l’islamizzazione in profondità della società, mentre i riformatori preconizzano un approccio più politico e sono aperti all’e alleanze con le forze d’opposizione. La sfida dei Fratelli musulmani è attualmente di sopravvivere e di restaurare la loro immagine. Il prezzo sarà un ritiro provvisorio dalla scena politica.”
Grosso modo, quello che i Fratelli stanno facendo oggi, ad un anno dall’analisi di Al-Maghrabi.
Ne è convinto anche Makram M. Ahmed, un altro analista di Al-Ahram, il quale scrive il 2 febbraio 2011, nel vivo delle drammatiche proteste cairote, “la Fratellanza continua ad incitare la popolazione a piazzarsi sulla prima linea degli scontri. Ma, all’ultimo momento, essa prenderà posizione negli ultimi posti e attenderà il risultati…”
Insomma, in Egitto, la questione dei movimenti islamisti (non solo dei Fratelli musulmani) è piuttosto complessa e richiederebbe molto più spazio per trattarla.
Per dare un’idea, ricordo quanto detto (ad Al-Ahram Weekly, aprile 1993) da Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura e vittima egli stesso di un grave attentato degli islamisti: “Anche se non sono d’accordo con gli islamisti, debbo constatare che essi sono il primo partito politico di questo Paese e che la loro politica corrisponde ai tre grandi problemi storici che si pongono in Egitto: l’indipendenza nazionale, la giustizia sociale e lo sviluppo”.
Egitto, un nuovo Iran?
Oggi, molti, a cominciare dai dirigenti israeliani, temono che in Egitto possano prendere il sopravvento le forze dell’islamismo, come avvenne in Iran nel 1979.
Gli israeliani enfatizzano il pericolo perché temono che, con l’uscita di scena di Mubarak, perderebbero un prezioso alleato che fa parte di quella strana rete di “nemici” che si sono scelti per affrontare la “questione palestinese”.
A parte l’enfasi degli israeliani, il problema esiste. Anche se un nuovo Iran non è all’orizzonte immediato o a medio termine. Diverse sono le condizioni politiche, culturali ed economiche fra i due Paesi, così come differenti sono le caratteristiche religiose: in Iran predomina lo sciitismo, in Egitto la tradizione sunnita che convive, con qualche problema, con una forte comunità cristiana copta (circa 8 milioni)
Perciò, è difficile fare previsioni attendibili sugli esiti di queste rivolte.
Anche nel 1979, in Iran, nessuno poteva immaginare la piega che presero gli avvenimenti dopo i primi governi di transizione.
L’abbattimento del regime repressivo dello Scià fu opera di un' eccezionale mobilitazione popolare unitaria: dai comunisti del Tudeh ai “mujahiddin del popolo”, dalle vecchie formazioni liberaleggianti ai seguaci dello sciitismo dell’ayatollah Khomeini.
Bani Sadr fu eletto presidente come espressione di questo contesto unitario di forze rivoluzionarie. Dopo pochi mesi fu costretto all’esilio. Al suo posto vennero i chierici di Khomeini che si appropriarono di tutto il potere in nome di Allah.
L’ayatollah Khalkali, il braccio della morte di quella “rivoluzione”, fu incaricato di liquidare con la tortura e le impiccagioni tutti coloro che non si sottomisero alle pretese illiberali di Khomeini.
L’entusiasmo per la “rivoluzione” iraniana
Anche allora grande fu l’entusiasmo per quella “rivoluzione” da parte di ampi settori democratici e della sinistra europea e italiana.
Ricordo che nel PCI c’era una forte corrente di simpatia per quella strana “rivoluzione” fatta in nome di Allah. Molti esponenti e intellettuali erano con Khomeini, con la sua costituzione basata sulla “charia”, anche quando cominciarono a funzionare le forche di Khalkali.
Personalmente, da deputato del PCI, sono stato fra i pochissimi che non hanno condiviso tale analisi e contestato, anche pubblicamente sui giornali, quella “rivoluzione” e la repubblica islamica degli ayatollah che è ancora lì, a provocare un sacco di problemi interni e internazionali.
Giacché, siamo in argomento, desidero aggiungere un altro fatto che, stranamente, tutti sembrano dimenticare. Dopo la fuga del presidente Bani Sadr arrivarono al potere i chierici integralisti, fra i quali un certo Hossein Moussawi, uno dei primi ministri più longevi. Durante i suoi otto anni di governo, in Iran si realizzò la “grande repressione” nella quale furono eliminati fisicamente circa 33 mila oppositori politici.
Sì, avete letto bene Hossein Moussawi, lo stesso mite professore che nelle ultime elezioni i “riformatori” iraniani, capeggiati dallo “squalo” Rafsanjjani, in combutta con i liberal europei e Usa, hanno contrapposto come presidente al candidato del potere, Mahmud Ahmadinejad.
Il Cairo non è Berlino
Perciò, prima di parlare di “rivoluzione” bisognerebbe approfondire le vicende storiche e un po’ meglio conoscere la realtà attuale di questi Paesi.
La rivoluzione, se è tale davvero, deve essere capace di sovvertire l’ordine sociale esistente e di crearne uno nuovo di segno contrapposto.
E in tutto il mondo arabo, l’unica rivoluzione così caratterizzata è stata quella, eroica e sanguinosa, del popolo algerino per liberarsi dal giogo coloniale francese.
In altri Paesi non ci sono state rivoluzioni, ma esperienze cospirative quasi sempre culminate in colpi di stato militari, spesso etero diretti e/o favoriti dai servizi dell’Est e dell’Ovest, che hanno generato molti regimi ancora al potere.
Perciò, mi pare una forzatura stabilire una similitudine fra queste rivolte e la “rivoluzione” del 1989 (simbolicamente rappresentata dall’abbattimento del muro di Berlino) che, in realtà, fu una presa d’atto, senza spargimento di sangue, dell’implosione di un sistema ormai esausto.
In Egitto, ma anche in Tunisia e nello Yemen, i vecchi regimi non sembrano intenzionati alla resa. Semmai, faranno qualche concessione politica ed elettorale.
Sono caduti diverse centinaia di manifestanti (300 solo in Egitto) ma ancora non c’è una vera svolta. L’unico elemento di novità è la nomina a vicepresidente del fidato generale Suleiman e la trattativa che questi ha avviato con le delegazioni dei partiti, fra le quali, per la prima volta, quella dei Fratelli Musulmani.
Per il resto, Mubarak, nonostante le caute pressioni internazionali, non si è dimesso e intende restare per guidare il processo di transizione.
La situazione, dunque, resta tesa e potrebbe degenerare in più gravi disordini e perfino in un vuoto istituzionale che i militari non potrebbero consentire.
Una cosa è certa: la situazione di stallo non può continuare a lungo, dovrà evolvere o nel senso della democrazia o della repressione.
Il Cairo non è Berlino. E fra i due sistemi ci sono grandi differenze. Il blocco sovietico ha mollato un impero senza spargere una goccia di sangue.
La Cina " comunista", addirittura sta facendo di meglio: trasformare, pacificamente e a tappe forzate, il suo socialismo rurale in un capitalismo avanzato, industriale e finanziario, per altro molto competitivo e mondializzato
Nella sua millenaria storia, il capitalismo non ha mai ceduto nulla senza prima aver provocato una guerra disastrosa. E l’Egitto è pienamente inserito nel sistema del capitalismo globale.
Nel mondo arabo manca la “rivoluzione francese”
Rivolta o rivoluzione, dunque? Gli avvenimenti e la storia s’incaricheranno di fornire la risposta esatta.
Tuttavia, una cosa si può auspicare: la rivoluzione che oggi si richiede all’Egitto e agli altri paesi arabi è quella per affermare la laicità dello Stato e i diritti civili e politici.
Insomma, una rivoluzione come quella che fecero i francesi nel 1789 (non 1989).
Il più grande evento della storia moderna che, a parte qualche eccesso, consentì ai popoli europei di passare dalla condizione di sudditi di regimi assolutistici alla dignità di cittadini liberi.
(11 febbraio 2011)
Agostino Spataro, giornalista, direttore di http://www.infomedi.it/ , collaboratore di “la Repubblica”, è autore di diversi saggi sul Mediterraneo e sul Mondo arabo
E’ accaduto prima in Tunisia e poi, a catena, in Egitto, nello Yemen…domani chissà!
Le piazze delle loro capitali si sono sollevate per chiedere libertà, lavoro e benessere economico e riforme democratiche. Richieste giuste, sacrosante contro regimi cristallizzati che parevano eterni.
Stranamente, però, le proteste si sono scatenate nei Paesi più poveri, anche se i più carichi di cultura e di storia.
Nulla, invece, si è mosso nelle cosiddette “petro – monarchie”, nei paesi grandi produttori d’idrocarburi. Come se qui tutto andasse nel migliore dei modi.
In realtà, non esistono Costituzioni, Parlamenti, elezioni (nemmeno col trucco), libertà civili e religiose, e i cittadini, soprattutto le donne, vivono dentro un medioevo lugubre e penoso, senza speranza di rinascimento.
Eppure, nessuno, in Occidente e in estremo Oriente, osa disturbare, censurare, diffidare il manovratore ossia quella caterva di re, sultani, emiri e loro corti al seguito il cui potere deriva dal sottosuolo dove si nascondono enormi riserve petrolifere e di gas.
Quasi che la libertà non fosse un valore universale inalienabile, ma una merce da barattare con altre merci, caso per caso.
La transizione democratica, l’uguaglianza fra uomini e donne, la tolleranza, la convivenza fra culture e religioni diverse?
Se ne parlerà alla prossima rivolta. Due pesi e due misure?
Soprattutto, a me pare, un’incorreggibile miopia politica dell’Occidente che non riesce a vedere oltre il barile di petrolio
La “rivoluzione” degli internauti
E così, oggi, abbiamo le piazze di alcune importanti capitali arabe invase dalle proteste sacrosante soprattutto di studenti, diplomati e disoccupati.
Nessuno l’aveva previsto. Nemmeno i potenti servizi segreti. I giornali, le Tv, che raramente si sono occupati di questi paesi, per altro, a noi vicini, le hanno frettolosamente battezzate “rivoluzioni”, aggiungendovi una bizzarra tipicità locale (quella tunisina l’hanno chiamata dei gelsomini) quasi a volerla ingentilire per non spaventare nessuno in Occidente.
In realtà, si tratta di rivolte espressione di uno stato d’animo colmo di rabbia e di amarezza accumulate nel tempo, di una condizione sociale che, finalmente, insorge contro le ingiustizie e le più sfacciate ricchezze.
L’obiettivo è chiaro: cacciare i tiranni a capo di regimi autoritari e corrotti, garantire la libertà per tutti e riformare i sistemi elettorali fatti su misura per il rais di turno.
Il dato nuovo di queste sorprendenti proteste è la presenza dei giovani in gran parte istruiti e disoccupati.
Soprattutto di quelli appartenenti alla fascia intermedia, fra i 18 e i 29, che secondo l’analista Abdel Moneim Said, (“Ahram-hebdo” del 2/2/2011) costituiscono il 23, 5% della popolazione ossia 19,8 milioni di unità. Il 36% di questi giovani raggiunge la scuola secondaria tecnica, mentre il 28% l’ insegnamento superiore.
Giovani che hanno un rapporto molto intenso con Internet e con i network. Secondo un rapporto “Il mondo elettronico in Egitto”- citato da Said- il numero degli utenti d’Internet è passato da 300.000 del 1999 a 14,5 milioni del 2009 a oltre 22 milioni nel 2010.
L’Egitto è in testa ai paesi arabi per utilizzatori di Facebook e Youtube, mentre i blog egiziani corrispondono al 30,7% dei blog arabi e allo 0,2% dei blog mondiali.
Sarà, forse, per questo che taluni hanno proclamato leader della rivolta, icona del nuovo Egitto, un giovane dirigente di Google in Medio Oriente, Wael Ghonim, arrestato e rilasciato dietro le potenti pressioni del governo Usa.
Prudenza, signori inviati! Il mondo non è solo quello virtuale. Anche Bin Laden e i suoi seguaci usano Google e i social-network.
Per altro, la crescita della componente giovanile egiziana internettizzata, - sostiene Said- denuncia un fenomeno relativamente nuovo : quello dei “giovani ideologici”.
“In effetti, diversi indicatori, rilevano come certi gruppi di giovani cominciano ad adottare visioni e ideologie che si basano su concetti religiosi. E così sono apparsi i giovani salafisti, i giovani della Fratellanza e i giovani copti.”
Egitto: i due fantasmi più temuti
Comunque sia, la protesta resiste, anzi si allarga ad altri settori sociali e città egiziani. Tuttavia, non si va oltre le richieste di dimissioni di Mubarak e di annullamento delle recenti elezioni politiche. Stenta, cioè, ad emergere una piattaforma programmatica globale capace di aggregare uno schieramento sociale e politico alternativo al blocco di potere dominante.
L’Egitto è un Paese - chiave del mondo arabo, con oltre 80 milioni di abitanti, è uno dei più popolosi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Un paese di contadini, d’impiegati pubblici, di operai e con un ceto medio diffuso. Un paese povero, a tratti disperato, col 40% della sua popolazione che, statisticamente, vive con meno di due dollari il giorno.
L’economia egiziana è fragile poiché si regge su tre pilastri fortemente influenzati dalla contingenza internazionale: il turismo, le rimesse degli emigrati e le entrate del Canale di Suez.
La domanda che molti si fanno è la seguente: quanto di questo Egitto è presente in piazza Tahrir?
La piazza è ritornata piena, tuttavia fuori di essa c’è una moltitudine che guarda, inquieta, in attesa di conoscere il corso risolutivo degli eventi.
Cosa è questa calma apparente? Una tregua o l’anticamera di una reazione violenta ?
O, forse, un segnale che oltre non si può andare?
E’ difficile dare risposte esaustive a queste e ad altre domande, tuttavia bisogna mettere in conto il timore di molti per un cambio radicale che farebbe materializzare i due fantasmi oggi più temuti in Egitto e dalla comunità internazionale: il crollo dell’economia e il dilagare, sul terreno politico ed elettorale dei “Fratelli musulmani”, l’unica forza politica e culturale realmente alternativa al regime di Mubarak.
I Fratelli Musulmani
Per quanto moderata e defilata da piazza Tahrir, nessuno sottovaluta (semmai qualcuno sopravaluta) il peso di questa potente Associazione che, dal 1928, (anno della sua fondazione) lavora per plasmare con la sua ideologia islamista la società e i settori più sensibili della cultura, dell’amministrazione, delle professioni e delle forze armate egiziani e di altri Paesi del Maskrek quali Giordania, Siria, Yemen, ecc.
Non potendo sconfiggere la Fratellanza sul terreno del confronto politico e del consenso di massa, i regimi l’hanno messa al bando anche se l’hanno tollerata e talvolta usata per combattere le spinte laiciste provenienti dai settori progressisti e di sinistra della società.
Solo le forze armate sono state capaci di tenerla a bada,
Così è stato dal 1954, da Nasser fino a Mubarak.
Oggi, in Egitto, la Fratellanza è sempre molto forte e bene organizzata. Secondo gli specialisti, conterebbe circa due milioni di aderenti, mentre nelle penultime elezioni politiche (2005) le sue liste “indipendenti” hanno ottenuto il 20% dei voti e 88 seggi in Parlamento. Un risultato importante visto che non era presente con i propri simboli e programmi e considerati i meccanismi truffaldini del sistema elettorale egiziano.
Nelle elezioni del 2010 l’Associazione ha deciso di non parteciparvi per protesta contro i brogli e le pressioni indebite degli apparati di regime il quale così si è assicurato circa il 90% dei seggi in Parlamento.
Comunque sia, oggi, la Fratellanza resta la principale forza di opposizione anche se divisa al suo interno. Negli ultimi anni è in atto un duro confronto fra tendenze riformatrici e conservatrici che, nel gennaio 2010, ha portato ad un cambio di “Guida”.
Il nuovo leader è Mohamad Badie, un medico pragmatico appartenente al “gruppo del 1965”, l’anno della repressione nasseriana in cui fu arrestato con altri fratelli puri e duri fra i quali Sayyid Qutb, il vero, grande teorico dell’islamismo radicale moderno, a sua volta condannato a morte e giustiziato nel 1966.
Un nome sconosciuto quello di Qutb in questo stravagante Occidente che ha promosso disastrose “guerre preventive” per sconfiggere l’islamismo radicale e terrorista, senza prendersi la briga di conoscere le loro principali fonti d’ispirazione.
La Fratellanza in posizione d’attesa?
Ma questa è un’altra storia. Anche se, come scrive May Al-Maghrabi, su Ahram Hebdo del 20/1/10 a commento del cambio di Guida, “i fratelli musulmani sono uniti sull’instaurazione di un sistema fondato sull’Islam e la Charia (legge coranica), ma sono profondamente divisi sulla strategia da tenere. I conservatori vogliono mettere l’accento su l’islamizzazione in profondità della società, mentre i riformatori preconizzano un approccio più politico e sono aperti all’e alleanze con le forze d’opposizione. La sfida dei Fratelli musulmani è attualmente di sopravvivere e di restaurare la loro immagine. Il prezzo sarà un ritiro provvisorio dalla scena politica.”
Grosso modo, quello che i Fratelli stanno facendo oggi, ad un anno dall’analisi di Al-Maghrabi.
Ne è convinto anche Makram M. Ahmed, un altro analista di Al-Ahram, il quale scrive il 2 febbraio 2011, nel vivo delle drammatiche proteste cairote, “la Fratellanza continua ad incitare la popolazione a piazzarsi sulla prima linea degli scontri. Ma, all’ultimo momento, essa prenderà posizione negli ultimi posti e attenderà il risultati…”
Insomma, in Egitto, la questione dei movimenti islamisti (non solo dei Fratelli musulmani) è piuttosto complessa e richiederebbe molto più spazio per trattarla.
Per dare un’idea, ricordo quanto detto (ad Al-Ahram Weekly, aprile 1993) da Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura e vittima egli stesso di un grave attentato degli islamisti: “Anche se non sono d’accordo con gli islamisti, debbo constatare che essi sono il primo partito politico di questo Paese e che la loro politica corrisponde ai tre grandi problemi storici che si pongono in Egitto: l’indipendenza nazionale, la giustizia sociale e lo sviluppo”.
Egitto, un nuovo Iran?
Oggi, molti, a cominciare dai dirigenti israeliani, temono che in Egitto possano prendere il sopravvento le forze dell’islamismo, come avvenne in Iran nel 1979.
Gli israeliani enfatizzano il pericolo perché temono che, con l’uscita di scena di Mubarak, perderebbero un prezioso alleato che fa parte di quella strana rete di “nemici” che si sono scelti per affrontare la “questione palestinese”.
A parte l’enfasi degli israeliani, il problema esiste. Anche se un nuovo Iran non è all’orizzonte immediato o a medio termine. Diverse sono le condizioni politiche, culturali ed economiche fra i due Paesi, così come differenti sono le caratteristiche religiose: in Iran predomina lo sciitismo, in Egitto la tradizione sunnita che convive, con qualche problema, con una forte comunità cristiana copta (circa 8 milioni)
Perciò, è difficile fare previsioni attendibili sugli esiti di queste rivolte.
Anche nel 1979, in Iran, nessuno poteva immaginare la piega che presero gli avvenimenti dopo i primi governi di transizione.
L’abbattimento del regime repressivo dello Scià fu opera di un' eccezionale mobilitazione popolare unitaria: dai comunisti del Tudeh ai “mujahiddin del popolo”, dalle vecchie formazioni liberaleggianti ai seguaci dello sciitismo dell’ayatollah Khomeini.
Bani Sadr fu eletto presidente come espressione di questo contesto unitario di forze rivoluzionarie. Dopo pochi mesi fu costretto all’esilio. Al suo posto vennero i chierici di Khomeini che si appropriarono di tutto il potere in nome di Allah.
L’ayatollah Khalkali, il braccio della morte di quella “rivoluzione”, fu incaricato di liquidare con la tortura e le impiccagioni tutti coloro che non si sottomisero alle pretese illiberali di Khomeini.
L’entusiasmo per la “rivoluzione” iraniana
Anche allora grande fu l’entusiasmo per quella “rivoluzione” da parte di ampi settori democratici e della sinistra europea e italiana.
Ricordo che nel PCI c’era una forte corrente di simpatia per quella strana “rivoluzione” fatta in nome di Allah. Molti esponenti e intellettuali erano con Khomeini, con la sua costituzione basata sulla “charia”, anche quando cominciarono a funzionare le forche di Khalkali.
Personalmente, da deputato del PCI, sono stato fra i pochissimi che non hanno condiviso tale analisi e contestato, anche pubblicamente sui giornali, quella “rivoluzione” e la repubblica islamica degli ayatollah che è ancora lì, a provocare un sacco di problemi interni e internazionali.
Giacché, siamo in argomento, desidero aggiungere un altro fatto che, stranamente, tutti sembrano dimenticare. Dopo la fuga del presidente Bani Sadr arrivarono al potere i chierici integralisti, fra i quali un certo Hossein Moussawi, uno dei primi ministri più longevi. Durante i suoi otto anni di governo, in Iran si realizzò la “grande repressione” nella quale furono eliminati fisicamente circa 33 mila oppositori politici.
Sì, avete letto bene Hossein Moussawi, lo stesso mite professore che nelle ultime elezioni i “riformatori” iraniani, capeggiati dallo “squalo” Rafsanjjani, in combutta con i liberal europei e Usa, hanno contrapposto come presidente al candidato del potere, Mahmud Ahmadinejad.
Il Cairo non è Berlino
Perciò, prima di parlare di “rivoluzione” bisognerebbe approfondire le vicende storiche e un po’ meglio conoscere la realtà attuale di questi Paesi.
La rivoluzione, se è tale davvero, deve essere capace di sovvertire l’ordine sociale esistente e di crearne uno nuovo di segno contrapposto.
E in tutto il mondo arabo, l’unica rivoluzione così caratterizzata è stata quella, eroica e sanguinosa, del popolo algerino per liberarsi dal giogo coloniale francese.
In altri Paesi non ci sono state rivoluzioni, ma esperienze cospirative quasi sempre culminate in colpi di stato militari, spesso etero diretti e/o favoriti dai servizi dell’Est e dell’Ovest, che hanno generato molti regimi ancora al potere.
Perciò, mi pare una forzatura stabilire una similitudine fra queste rivolte e la “rivoluzione” del 1989 (simbolicamente rappresentata dall’abbattimento del muro di Berlino) che, in realtà, fu una presa d’atto, senza spargimento di sangue, dell’implosione di un sistema ormai esausto.
In Egitto, ma anche in Tunisia e nello Yemen, i vecchi regimi non sembrano intenzionati alla resa. Semmai, faranno qualche concessione politica ed elettorale.
Sono caduti diverse centinaia di manifestanti (300 solo in Egitto) ma ancora non c’è una vera svolta. L’unico elemento di novità è la nomina a vicepresidente del fidato generale Suleiman e la trattativa che questi ha avviato con le delegazioni dei partiti, fra le quali, per la prima volta, quella dei Fratelli Musulmani.
Per il resto, Mubarak, nonostante le caute pressioni internazionali, non si è dimesso e intende restare per guidare il processo di transizione.
La situazione, dunque, resta tesa e potrebbe degenerare in più gravi disordini e perfino in un vuoto istituzionale che i militari non potrebbero consentire.
Una cosa è certa: la situazione di stallo non può continuare a lungo, dovrà evolvere o nel senso della democrazia o della repressione.
Il Cairo non è Berlino. E fra i due sistemi ci sono grandi differenze. Il blocco sovietico ha mollato un impero senza spargere una goccia di sangue.
La Cina " comunista", addirittura sta facendo di meglio: trasformare, pacificamente e a tappe forzate, il suo socialismo rurale in un capitalismo avanzato, industriale e finanziario, per altro molto competitivo e mondializzato
Nella sua millenaria storia, il capitalismo non ha mai ceduto nulla senza prima aver provocato una guerra disastrosa. E l’Egitto è pienamente inserito nel sistema del capitalismo globale.
Nel mondo arabo manca la “rivoluzione francese”
Rivolta o rivoluzione, dunque? Gli avvenimenti e la storia s’incaricheranno di fornire la risposta esatta.
Tuttavia, una cosa si può auspicare: la rivoluzione che oggi si richiede all’Egitto e agli altri paesi arabi è quella per affermare la laicità dello Stato e i diritti civili e politici.
Insomma, una rivoluzione come quella che fecero i francesi nel 1789 (non 1989).
Il più grande evento della storia moderna che, a parte qualche eccesso, consentì ai popoli europei di passare dalla condizione di sudditi di regimi assolutistici alla dignità di cittadini liberi.
(11 febbraio 2011)
Agostino Spataro, giornalista, direttore di http://www.infomedi.it/ , collaboratore di “la Repubblica”, è autore di diversi saggi sul Mediterraneo e sul Mondo arabo
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