sabato 3 settembre 2011

LIBIA: LA NATO PUO’ VINCERE LA GUERRA, MA PERDERE IL DOPOGUERRA


di Agostino Spataro

DECENNALE 9/11: INVECE DEL PROCESSO SI CELEBRERA’ UNA VEDETTA DI STATO

Gheddafi farà la stessa fine di Osama Bin Laden? Probabilmente, sì. Alcuni lo auspicano, taluni lo minacciano, apertamente. Se ciò dovesse accadere non sarà certo per “spirito di vendetta degli “insorti”. Quali ragioni avrebbero di vendicarsi quei suoi sodali che fino all’altro ieri, per 42 anni, hanno comandato e condiviso col dittatore potere e ricchezza?

Sarebbe ucciso per tappargli la bocca, per evitare che in un processo equo e pubblico potesse chiamare in correità i suoi ex amici, libici e internazionali. Del resto, la soluzione sarebbe in linea con la sorprendente decisione assunta dalla presidenza Usa di fare assassinare Osama Bin Laden, facendone addirittura sparire il corpo.

Per tale decisione molti hanno esultato. La gran parte dei cittadini Usa e del mondo intero, invece, hanno visto in questo atto fin troppo sbrigativo la negazione di un loro diritto fondamentale: quello di poter processare un capo terrorista che- secondo la versione ufficiale- è stato l’autore del più tremendo attentato della storia che provocò circa tremila vittime innocenti statunitensi.

Insomma, il diritto alla veritá, alla giustizia vera, non sommaria. Quale migliore celebrazione del Decennale se il prossimo 11 Settembre si fosse aperto, a New York, il processo a Osama Bin Laden per l’accertamento pieno delle responsabilità e della verità? Invece, sarà celebrata soltanto un’oscura vendetta di Stato.

CON GHEDDAFI BISOGNAVA CHIUDERE QUALCHE ANNO FA, INVECE…

Con Gheddafi il copione potrebbe ripetersi, per evitare che, parlando in un processo, possa creare molti imbarazzi e bloccare fulminanti carriere politiche in Libia e all’estero. Soprattutto, di tanti capi di Stato occidentali i quali, nonostante il dittatore libico avesse ammesso la tremenda responsabilità per gli attentati ai due aerei civili, nei quali perirono circa 600 persone innocenti, lo hanno premiato accogliendolo nel club esclusivo dei loro amici e protetti.. Con Gheddafi, bisognava chiudere allora, isolandolo e invocando il principio di giustizia. Invece, non se ne fece nulla. (1) Nemmeno al Tribunale dell’Aja hanno aperto un fascicolo di atti relativi. E’ bastato che il colonnello pagasse un indennizzo alle famiglie delle vittime,( ch’era la conferma agghiacciante della sua responsabilità) per fare esattamente il contrario di quanto andava fatto.

Si avvió, infatti, fra i capi di Stato e di governo dell’Occidente una sorta di gara a chi per primo riusciva a “sdoganare” un terrorista reo confesso, a riceverlo presso le più prestigiose cancellerie. Tutti, non solo Berlusconi che si é spinto a baciargli la mano. Compresi, cioé, i signori Sarkoszy, Obama e i premier inglesi che, come “cadeau”, gli hanno consegnato libero l’unico imputato libico detenuto in Gran Bretagna per la strage di Loockerbie. Il problema che poniamo non é riferito ai due citati casi, ma é una questione generale, di principio, di coerenza politica e morale e di rispetto della legalità internazionale e della nostra civiltà giuridica che condannano le ingerenze esterne e la barbarie delle esecuzioni sommarie e i processi-farsa. Oggi, in Libia si corre questo rischio. Il popolo libico, nell’ambito della propria legislazione, ha il diritto di processare Gheddafi per le colpe e i reati attribuitigli ed anche tutti coloro che hanno cooperato col dittatore. Un processo equo sarebbe una vittoria della giustizia e una condizione basilare per avviare, con idee e uomini veramente nuovi, una riforma in senso democratico dello Stato e dell’economia libici.

INTERVENTI “UMANITARI”: PIU’ DISASTROSI DELLE MALEFATTE DEI DITTATORI

Andiamo ora a questo ennesimo intervento militare “umanitario” che in realtà si sta dimostrando essere una guerra della Nato con gli “insorti” al seguito, i quali - come ha detto efficacemente Edward Luttwak: “sparano per i cameraman delle televisioni” E poi, conti alla mano, si è dimostrato che questi interventi hanno provocato più morti e distruzioni di quelle provocate dai carnefici che si vorrebbero bloccare e punire. Basta guardare l’abisso in cui sono stati trascinati la Somalia, l’Afghanistan e ora la Libia. Il caso dell’Iraq è davvero emblematico: Saddam Hussein è stato impiccato perché accusato di avere ordinato la strage di alcune migliaia di poveri sciiti, mentre la guerra di Bush junior, fino ad oggi, ha provocato diverse centinaia di migliaia di innocenti vittime irachene.C’è chi parla di circa 600.000! Anche la soppressione ingiusta di una sola persona dovrebbe far inorridire la coscienza di ognuno di noi. Tuttavia, se i numeri e la vita degli uomini hanno ancora un senso, tremila o cinquemila vittime di Saddam non sono la stessa cosa delle trecento o cinquecentomila provocate dall’invasione militare di Bush e della coalizione internazionale che- com’è comprovato- hanno deliberatamente falsato le prove per invadere l’Iraq. Se Saddam ha pagato i suoi crimini con l’impiccagione, perché non devono pagare coloro che hanno provocato questo più grande sterminio? Perché l’ineffabile tribunale dell’Aja non ha aperto un fascicolo, un’inchiesta?

L’INELUTTABILITA’ DELLA GUERRA COME RISPOSTA ALLA CRISI GLOBLE?

A queste e ad altre drammatiche domande nessuno dei responsabili risponde. Forse, i capi delle grandi potenze occidentali pensano di cavarsela sempre a buon mercato, impunemente, cospargendo l’umanità di vecchi e nuovi terrori, in gran parte inesistenti, per meglio imporre il loro dominio e militarizzare il sistema delle relazioni internazionali.

Come se di fronte alla crisi globale, epocale, questo nostro Occidente, in decadenza e in mano a poteri forti e invisibili, eletti solo dai consigli di amministrazione di banche e società d’affari, non riuscisse più ad elaborare risposte diverse dall' opzione militare. Siamo all’ineluttabilità della guerra? Speriamo, sinceramente, di sbagliare l’analisi, ma in giro si avvertono strani sentori. C’è una crisi anche del pensiero politico occidentale? Sicuramente, pesano l’infiacchimento della democrazia rappresentativa, l’umiliazione della politica oramai asservita ai disegni della finanza e delle consorterie economiche internazionali, il dilagare dei poteri criminali. Sopra tutto, pesa la crisi del ruolo economico dell’Occidente che non riesce piú a produrre la ricchezza (tanta) che consuma, che importa e spreca risorse energetiche, inquinando il Pianeta e devastandolo con guerre micidiali e infinite per procurarsele. Come sta facendo in Libia, in Iraq e altrove. Sappiamo che le crisi ci sono sempre state e, bene o male, sono state superate. Questa volta, però all’orizzonte del nostro futuro prossimo non s’intravede una soluzione degna e condivisa, a garanzia del benessere e della convivenza pacifica mondiali. Qui sta il punto di novità ineludibile: con la globalizzazione, l’Occidente non è più il principale protagonista della storia.

ITALIA: FINCHE’ C’E’ GUERRA (NON) C’E’ SPERANZA

L’Italia, da almeno un ventennio, sembra essersi avviata su questa china. Siamo un Paese bellissimo, ma pieno di debiti e di storture che si da arie da grande potenza. Partecipiamo a tutte le missioni militari all’estero, a tutte le guerre in giro per il mondo, acquistiamo sistemi d’arma costosissimi come se dovessimo entrare in guerra con la Cina o con gli Usa. Insomma, una spesa militare enorme (insopportabile per un paese come l’Italia che sta tagliando scuole, ospedali e assistenza ai più deboli) per partecipare alla folle corsa al riarmo ripresa su scala planetaria. Un solo esempio: l’Italia ha impegnato ben 15 miliardi di euro (mezza manovra di Tremonti) per l’acquisto di un centinaio di bombardieri F35. Domanda: oggi che la crisi incalza, perché non si annulla, non si rinvia o almeno non si sospende questa colossale commessa? Insomma, finché c’è guerra c’è speranza. Di questo passo, quante altre guerre ci vorranno? Oggi è il turno della Libia. Domani, chissà, forse quello del Venezuela, di Cuba, ecc. L’Italia, per la sua tradizione, per la sua Costituzione pacifista e antifascista, per i suoi interessi nazionali, non può accodarsi supinamente all’interventismo di altri. Ieri a quello disastroso di Bush, oggi a quello avventuroso del presidente francese che tanto preoccupa l’opinione pubblica mondiale e europea ed allarma molti governi legittimi, in Africa e in Medio Oriente, che lo percepiscono come una seria minaccia d’ingerenza e d’instabilità internazionale. Insomma, nessuno si sente più sicuro in casa propria!

LA GUERRA A DEBITO DELLE GRANDI POTENZE

Tutto ciò è inaccettabile, immorale per una società libera e democratica. Si stanno devastando i bilanci degli Stati, contraendo debiti sopra debiti per finanziare guerre, nient’affatto umanitarie. Perché deve essere chiaro che queste “grandi potenze” fanno le guerre a debito ossia con i soldi prestati dalla Cina e dai piccoli risparmiatori locali. Questa notazione vale in particolare per gli Usa, meno per l’Italia il cui debito pubblico (sproporzionato) è prevalentemente finanziato dal risparmio interno ed europeo. Inoltre, ribadisco che l’Italia partecipando alla guerra in Libia ha solo da perdere sul piano dell’immagine politica e su quello delle sue relazioni economiche e commerciali. Puó sembrare assurdo, ma, per certi aspetti, questa guerra è anche contro l’Italia. Ovviamente, il nostro discorso è prima tutto politico, umanitario, coerente con il pacifismo insito nell’articolo 11 della nostra Costituzione che non può essere oscurato da quel vergognoso codicillo introdotto per vanificarlo. Oggi, anche i grandi giornali italiani che hanno incitato alla guerra scrivono, allarmati, di come si potrà spartire il “bottino” ossia il tesoro del popolo libico: i grandi giacimenti d’idrocarburi e- a quanto si dice- le cospicue riserve finanziarie, anche in oro, e in titoli azionari, ecc. Tutto sarà deciso a Parigi, su iniziativa di Sarkozky, il principale promotore del progetto “insurrezionale”, che vorrà fare la parte del leone, in accordo con gli altri due paesi della triade bellicista (GB e USA).

SI PUO’ VINCERE LA GUERRA, MA PERDERE IL DOPOGUERRA

Non sappiamo che cosa sia stato promesso alle più alte Autorità italiane per indurle a far entrare il Paese in questa avventura, mettendo a disposizione navi, aerei e diverse basi italiane. A quanto si vede, gli “insorti” preferiscono trattare con la triade e trascurano il governo italiano. Se la tendenza venisse confermata, si aprirebbero scenari molto problematici per l’Italia. Il governo e il ceto politico italiano (di destra e di centro-sinistra), stranamente unito in questa scelta improvvida, sapevano a quali conseguenze si andava incontro e avrebbero dovuto chiarirlo al Paese, al Parlamento. Non è stato fatto. Perciò, crescono le inquietudini nell’opinione pubblica. E’ tempo che i nostri responsabili rispondano ai tanti quesiti che la gente si pone e fra questi alcuni davvero pregnanti e prioritari:

1) quale sarà il futuro dei nostri rifornimenti d’idrocarburi derivati dalla Libia (circa il 25% del fabbisogno totale italiano)? 2) quali squilibri si potranno determinare nella bilancia commerciale italo-libica, unica in equilibrio con un paese petrolifero? 3) che fine faranno gli ambiziosi programmi d’investimento (in ricerca e produzione) di Eni e il ruolo stesso di questo colosso dell’energia (al 70% privatizzato) che fa ombra a molti all’estero e purtroppo anche in Italia? 4) cosa ne sarà dell’accordo d' indennizzo e di cooperazione firmato da Berlusconi e Gheddafi con un costo per l’Italia di cinque miliardi di euro in 20 anni? 5) come spiegano, infine, il rifiuto della Germania, paese membro della Nato e locomotiva dell’Unione Europea, di partecipare all’avventura libica. Insensibilità o preveggenza della signora Merkel?

Le risposte, probabilmente, non verranno poiché questi signori si sentono invincibili con… i deboli. Attenzione, però, che si può vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra.

Note:

(1) altri articoli sulla Libia sul nostro sito “Informazioni on line dal Mediterraneo”: www.infomedi.it, mentre per un giudizio, ampio e approfondito, su Osama Bin Laden e sui suoi collegamenti e coperture internazionali rinvio al mio “Il fondamentalismo islamico- Dalle origini a Bin Laden”, Editori Riuniti, Roma, 2001.

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