Di Gaetano Alessi*
Esiste una terra magica dove il multiculturalismo è
già una realtà.
Bellemilia di buon vino, vecchie sedi di partito,
con le carte sempre in mano e una fola piano piano, scrive Luca
Taddia in una sua bellissima canzone. Il problema è che il
multiculturalismo è quello mafioso, che le carte sono spesso dentro
le bische clandestine gestite dalle cosche e che la “fola” a cui
aggiungerei, come espediente narrativo, una elle, è quella delle
'ndrine che hanno ormai artigliato parte del tessuto economico della
Regione.
Ora, per evitare che lo scriba venga definito
“mitomane” e “fissato”, aggettivi amorevolmente rivoltimi da
politici di tutto lo Stivale, vi racconterò una storia che ha come
protagonisti boss silenti, politici distratti, imprenditori pavidi e
Società Civile “opulenta”.
In questa storia una parte importante la faranno i
numeri.
Non per uno sperticato amore dell’autore verso
quei meravigliosi segnetti inventati dagli arabi, ma perché fanno da
cornice ad un quadro che altrimenti resterebbe, con grande gioia
della criminalità, nel solco del folklore.
A calcare le terre emiliane sono in questo momento
undici organizzazioni mafiose.
Resto del mondo batte Italia per 7 a 4, schierando
nell’ordine mafia Nord Africana, Nigeriana, Cinese, Sud Americana,
Rumena, Ucraina e Albanese.
L’Italia risponde con Cosa Nostra, Camorra, Sacra
Corona Unita e la 'Nrangheta, suddivise in 62 cosche, 34 della mafia
calabrese, 12 di quella siciliana a pari merito con quella Campana e
una dell’onorata società pugliese ben trapiantata in riviera dove
gestisce il traffico di stupefacenti.
Da dove arrivano queste realtà e quando hanno
cominciato ad agire?
Se fosse una fiaba l’incipit d’apertura potrebbe
essere “C’era una volta”.
Già, “c’era una volta”, espressione semplice
ma convincente per dire che certe cose oggi non succedono più, per
buttare sulle spalle del passato ogni vergogna, ogni cosa che non ci
piace ed assolvere il presente.
Il nostro quotidiano è però figlio di quel passato
e in quel passato “C’era una volta” la legge sui sorvegliati
speciali, ereditata dal fascistissimo “confino”.
E fu seguendo quella legge che dal 1958 fino quasi
ai giorni nostri l’Emilia Romagna è stata terra di migrazioni, non
di poveri disperati arrivati con i barconi, ma di mafiosi patentati e
potenti, inviati dallo Stato nella “Rossa Emilia” per
“ravvedersi”. Dal primo, nel 1958, Procopio Di Maggio, capo
mandamento di Cinisi (Pa), a cui è seguito un vero e proprio tsunami
mafioso che ha fatto approdare in Regione oltre 3.600 uomini e donne,
appartenenti alla cosche.
Gente qualunque? E quando mai! Tanto per fare
qualche nome: Giacomo Riina, Tano Badalamenti (che secondo la
Criminalpol dal '74 al '76 gestiva da Sassuolo (Mo) i traffici
illeciti nella provincia di Modena), Barbieri e Ventrici (tra i
leader mondiali del narcotraffico), Pasquale Condello, il “supremo
Boss” di Reggio Calabria (cuore in Calabria e portafoglio a Cesena
si diceva) e il buon “Sandokan”, quel Francesco Schiavone noto
per le sue “simpatie” nei riguardi di Roberto Saviano.
E la Società Civile che cosa ha fatto? Li ha
respinti? Pare di no, anzi! Essendo l'Emilia Romagna una terra
ospitale, capitava che il boss della 'Ndrangheta Antonio Dragone,
uscito dal carcere di Reggio Emilia, venisse omaggiato da
imprenditori ed impresari del luogo che fecero la fila per
consegnargli quasi un milione di euro, tanto per fargli capire che
non c’era bisogno di nessuna opera di estorsione, tanto gli
imprenditori si estorcevano da soli!
E mentre le mafie s’ingrassano la reazione dello
Stato è lenta. Tanto per fare un esempio, nel 2009 a Parma il
Prefetto dell’epoca Paolo Scarpis, poi divenuto vice capo dei
servizi segreti (siamo in buone mani), disse che la mafia nella città
Ducale “Era una sparata”.
E le mafie educatamente rispondono “obbedisco”,
tanto che Raffaele Guarino (2010), Salvatore Illuminato (2003),
Antonino D’Amato (2011) e Gabriele Guerra (2003) vengono “sparati”
in giro
per la Regione.
Ma Scarpis non è il solo, anche il Sindaco di
Ravenna, Fabrizio Matteucci, ad ogni arresto, attentato,
intimidazione, dichiara che è “un fatto occasionale”.
Di certo “occasionale” non è la presenza delle
aziende mafiose nella gestione di opere pubbliche.
Tantè che le mafie negli ultimi trent’anni
gestiscono, tra le altre cose, la ristrutturazione della Pinacoteca
Nazionale di Bologna, l’ampliamento e la ristrutturazione
dell’aeroporto di Bologna e visto che c’erano dal 2004 al 2007
anche i servizi a terra dello stesso scalo e il progetto di
ristrutturazione di Piazza Maggiore a Bologna. La discarica dei
rifiuti di Poiatica nel comune di Carpiteti (Re): qui l’azienda, il
gruppo Ciampà, ha da anni il certificato antimafia per smaltimento
di sostanze tossiche ritirato in Calabria (operazione Black
Mountains) e tranquillamente da anni continua a lavorare in Emilia
Romagna. E ancora: realizzazione del sottopasso di collegamento di
via Cristoni e Pertini oltre la Casa della Conoscenza di Casalecchio
di Reno (Bo), alloggi e autorimesse a Budrio (Bo) e Forlì, case
popolari a Bologna, Reggio Emilia e Modena.
Le aziende delle cosche hanno bei nomi: Icla,
Promoter, Ciampà, Doro Group, Enea, e spesso buoni soci, CCC, SaB,
Gruppo Ferruzzi.
Mangiano bene gestendo ristoranti alla moda come il
Regina Margherita a Bologna.
Ed hanno, o millantano, amicizie importanti. La
telefonata che riporto tra Sasà D. direttore del ristorante Regina
Margherita di Bologna e Marco Iorio (condannato per riciclaggio)
è del 13 febbraio 2011.
È Sasà a
chiamare Iorio, che lui definisce "il capo in assoluto" del
Regina Margherita Group. Dopo alcune battute sull’andamento del
locale Iorio chiede a Sasà del nuovo questore di Napoli, dottor
Merolla (questore a Bologna fino a febbraio 2013, ndr) e si accerta
se è un suo amico.
Sasà: "L'amico mio... sì, sì, gli ho già parlato!".
Sasà: "L'amico mio... sì, sì, gli ho già parlato!".
Iorio: "L'amico
tuo?"
Sasà: "Sì,
tengo il numero di telefono... quando viene a Napoli... già ho
organizzato!".
Poi nasce un equivoco. Iorio confonde Merolla con Francesco Cirillo, ora numero due della Polizia: "Ma io già lo conobbi, quel signore di carnagione scura e capelli brizzolati...".
Poi nasce un equivoco. Iorio confonde Merolla con Francesco Cirillo, ora numero due della Polizia: "Ma io già lo conobbi, quel signore di carnagione scura e capelli brizzolati...".
Replica Sasà:
"No, tu hai conosciuto Cirillo, quello adesso è capo della
Polizia... poi sto Merolla, mo' è diventato questore di Napoli",
Sasà:
"E' quello là che, io stavo a casa tua, ti feci parlare al
telefono!... tu hai parlato al telefono con questo!".
Iorio: "Lo so!"
Iorio: "Lo so!"
Sasà: "E
comunque gli ho detto: 'dottore, lui dal primo marzo sta a Napoli, lo
vado a prendere, stiamo insieme e poi vengo al Regina Margherita
(quella di Napoli, ndr)
da te!' Deve stare da te, già è tutto programmato... già ho fatto,
è venuto venerdì a mangiare qui, due pizze... è tutto tranquillo,
gira molto per i ristoranti".
Iorio è affamato
di informazioni sul nuovo questore di Napoli. Chiede se "è
pesante o compagno", Sasà dice che "è compagno" tre
volte, "proprio nostro amico... il figlio è un primario, no, è
tutto a posto Marco!". E termina con lo zelo del sottoposto:
"Già lo sapevo che dovevo fare così".
L'ex Questore ed
il numero due della Polizia, non proprio un quadretto edificante
dello Stato in Regione.
Ma la storia si
sposta nel 2013. Dopo il sequestro del locale e la gestione di un
barista locale, il Regina Margherita è stato nuovamente assegnato.
Indovinate a chi? Ai gestori di Rossopomodoro, anche loro a suo tempo
sotto inchiesta per “amicizie” pericolose e al timone del locale
torna Salvatore D’Ascia. Chi è? Il Sasà delle intercettazioni.
Unico commento:
siamo un paese fantasioso.
Ma la “favola”
assume connotati dark, dato che le mafie in Emilia Romagna sono
silenti per lo più, ma se s’incazzano assaltano Caserme dei
Carabinieri (Sant’Agata Bolognese), mollano bombe all’agenzia
delle entrate (Sassuolo), elargiscono proiettili (tra gli altri
Massimo Mezzetti assessore regionale di SeL), tagliano gomme
(liquidatore Sapro nel forlivese), danno fuoco con grande maestria
(un mezzo meccanico esplode in media ogni tre giorni), minacciano
giornalisti (5 casi negli ultimi anni con Giovanni Tizian che finisce
sotto scorta e David Oddone che non può dato che San Marino non
prevede “protezioni” per i giornalisti che fanno il loro
mestiere). Vantano avvocati di grido, come Libero Mancuso difensore
di quel Giovanni Costa che per anni ha ripulito soldi della mafia dal
suo attico con vista tribunale di galleria Falcone-Borsellino a
Bologna. E la Società Civile che cosa fa? Si costerna, s’indigna e
s’indegna senza gran dignità. Per SoS impresa l’8,6% degli
esercizi commerciali o paga il pizzo o è vittima di usura. Ma
nessuno, o quasi, denuncia. Secondo il Magistrato Lucia Musti,
memoria storica dell’antimafia emiliana, l’omertà è una
costante della regione dato che, dice la Musti, “le intimidazioni
denunciate sono state pochissime, quello che abbiamo trovato
l’abbiamo trovato grazie alle operazioni di ascolto, alle
intercettazioni”.
Ma non basta, la Dia (Direzione
Investigativa Antimafia) ha evidenziato che non c’è provincia o
zona della Regione che non sia contaminata dal nesso inscindibile tra
gioco d’azzardo, indebitamento e successiva estorsione e usura.
Mentre lo Stato ammorba l’etere con la frase “Ti piace vincere
facile” le mafie si arricchiscono a dismisura aprendo sale Slot e
gestendo le macchinette in bar ed esercizi commerciali tra
l’indifferenza più o meno complice dei proprietari delle attività,
ma anche di certe parti dello Stato stesso. Può anche capitare,
quindi, che un uomo, Nicola Femia, n’dranghetista riconosciuto
universalmente con condanna nel 2002 per narcotraffico, potesse
camminare liberamente e far gestire attività intestate ai figli
nella tranquilla Conselice (Ra), dove in pochi si chiedevano come
questo uomo venuto da fuori possedesse tutto questo potere economico.
Per fortuna a togliere dall’imbarazzo chi doveva vigilare ci ha
pensato la magistratura, che ha sbattuto il Femia in galera
sequestrando, nell’operazione Black
Monkeys (gennaio 2013), beni
per 90 milioni di euro.
E dato che
appalti, usura, traffico di uomini e donne e droga c’erano, non
poteva mancare il traffico d’armi, con partenza dal porto di
Ravenna e ultima meta le coste della Somalia. Il
traffico di armi è una sorta di ricompensa verso chi si occupa dello
smaltimento di rifiuti tossici nelle acque del Golfo di Aden, a nord
dello stato africano, ma anche nell’oceano Indiano, a sud. Uno
scambio di morte che parte dalle gioiose coste romagnole.
Cose turche!
Direbbe Franco Franchi, cose nostre potremmo aggiungere, perché il
quadro della presenza mafiosa in Emilia Romagna non è ancora finito
dato che la Regione è la prima in Italia per lavoro nero e la
seconda sul fronte degli irregolari.
Il 70% degli
appalti viene dato in sub appalto e sempre più spesso viene
utilizzata, per assegnare le gare, la formula del “massimo
ribasso”. Ad esempio, il Cie di via Mattei a Bologna (assegnato di
forza dalla Prefettura ad un'azienda siciliana, il consorzio “Oasi”
con il 70% di ribasso, collassato in pochi mesi con il risultato che
la Procura ha aperto un fascicolo contro la Prefettura e i lavoratori
sono finiti tutti per strada); tutto questo crea, nel silenzio,
l’humus che permette il radicamento nell’edilizia (e non solo)
delle forze criminali. Ancora: anche per il trasporto su gomma, dove
per anni mafiosi come Ventrici, quello del “Contro di noi la guerra
non la vince neppure il Papa”, hanno gestito il business anche per
multinazionali come la Lidl, avviene il miracolo economico per
eccellenza. Quale? Quello del trasporto merci, senza mezzi di
trasporto! Mi spiego.
Su 9.083 imprese
di trasporto in Emilia Romagna 2.599 (il 30%) risultano non possedere
neppure una bicicletta! L’arcano lo spiega Franco Zavatti della
Cgil di Modena “Alcune di queste sono le ditte fantasma attraverso
cui la malavita organizzata fa il pieno d’infiltrazioni nei
cantieri. Entra ed esce e controlla il territorio, la manodopera,
minaccia chi lavora onestamente e la butta fuori dal mercato”.
Anche qui
pochissime proteste e tanto silenzio della comunità anche di fronte
alle minacce verso Cinzia Franchini, presidente CNA Fita di Modena,
che per le sue prese di posizione si è vista recapitare dei
proiettili in sede.
Il silenzio è una
costante. Nel silenzio le organizzazioni criminali riciclano il
denaro tramite, per esempio, il proliferarsi di compro oro e sale
Vtl; le mafie straniere gestiscono la prostituzione, l’immigrazione
clandestina e lo spaccio di stupefacenti; il paradiso fiscale di San
Marino dà ricetto a tutti i traffici al grido di “pecunia non
olet”. Per i beni confiscati, oltre 100, non si trova ancora la
chiave legislativa per restituirli alla comunità.
Ma il motore
economico che fa girare tutti gli affari della criminalità è la
droga.
Il 34,2 % (tra i
15 e i 64 anni) degli emiliano romagnoli ha fatto o fa uso di
cannabis. Visto che di legalizzazione non se ne parla le mafie,
'Ndrangheta come capofila, hanno trasformato Bentivoglio (Bo) e
Ozzano (Bo) come centri del narcotraffico internazionale. Luoghi dai
quali Francesco Ventrici e Vincenzo Barbieri in un decennio,
2001-2011, hanno messo sul campo un’organizzazione capace di
trattare alla pari con i Narcos di qualunque parte del mondo
inondando l’Europa di coca e milioni di euro sporchi.
Il 2013 è anche
l’anno delle morti per “eroina bianca”. Solo su Bologna 15
decessi con una media di un morto al mese fino all’esplosione
estiva con quattro morti ad agosto e tre a settembre. Da
quando a Bologna ha iniziato a girare la “bianca”, è scattata
l’emergenza. Questo tipo di eroina, allo stesso prezzo di una dose
“normale”, si parla di 25-30 euro, contiene un principio attivo
del 70-80%, una quantità molto maggiore rispetto agli standard
abituali a cui gli utilizzatori non sono abituati. Questa piccola
ecatombe in un territorio gestito “militarmente” dalla
'Ndrangheta, che al principio del silenzio deve la sua ricchezza,
suona davvero strana e potrebbe essere il segnale che in Regione si
sta aprendo una crepa nel monolite della mafia made in Calabria,
sfidata da mafie emergenti e con talmente pochi scrupoli di immettere
nel mercato “cocktail” assassini pur di ritagliarsi uno spazio.
Se questo segnale fosse vero ci troveremmo ad affrontare per la prima
volta in terra emiliano romagnola una guerra di mafie e sarebbe la
fine dell’illusione che la mafia in Emilia Romagna è un “problema
degli altri”.
Nel quadro fin qui disegnato vi è però una punta
di colore, sono gli anticorpi democratici che stanno venendo su
veementi negli ultimi anni. Nati in periferia, nelle piccole cantine
dove si riuniscono le associazioni di base come il Gruppo dello
Zuccherificio di Ravenna, Gap di Rimini, Sui Generis di Parma,
Cortocircuito e Partecipazione di Reggio Emilia, NoName e
DieciVenticinque di Bologna per fare alcuni nomi. Le Anpi di molte
zone della Regione che hanno avuto l’intuizione di coniugare la
Resistenza al nazi-fascismo con quella alla mafia: Carpi, Marzabotto
e Daniele Civolani a Ferrara ne sono un esempio. Libera, l’Arci,
Articolo21 e parte della Cgil, alcuni politici illuminati come
Antonio Mumolo e Thomas Casedei. Una serie di piccoli “nidi di
ragno” capaci di incrinare il silenzio e mettere sotto gli occhi
della politica e dell’opinione pubblica una situazione esplosiva ma
non ancora esplosa. La fortuna è anche quella di aver trovato
nell’Università di Bologna ed in Stefania Pellegrini il mezzo, il
corso ''mafie e Antimafia'' ed il laboratorio di giornalismo
antimafia che ne fa parte integrante, dove incanalare in percorsi di
difesa democratica (perché soprattutto questo è l’antimafia
sociale) una serie di sensibilità che nascono dal territorio. Da
questo lavoro hanno preso vita due leggi regionali ed il protocollo
sulla ricostruzione, ma soprattutto una consapevolezza oramai
generalizzata: che le mafie in questa regione ci sono, sono presenti
e potenti, e che non fanno sconti. Ed un ulteriore certezza: che se
l’antimafia vuole contrastare questo impero criminale fatto di
droga, prostituzione, riciclaggio, usura, colletti bianchi e sangue
deve avere la stessa determinazione.
Non è una partita tra gentiluomini, ma una vera e
propria nuova Resistenza, dove in palio non c’è nessun premio, ma
il futuro di una terra straordinaria come l’Emilia Romagna.
*premio “G.Fava” 2011 per il giornalismo
antimafia
Curatore 2011/2012 per l’università di Bologna
(facoltà di Giurisprudenza/Scienze Politiche) del laboratorio di
giornalismo partecipativo “mafie e antimafia in Emilia Romagna”.
N.b. L’articolo nasce dall’esigenza di mettere
in fila i fatti di mafia in questa Regione negli ultimi anni.
L’ampiezza del tema trattato, lo spazio e la volontà di non
tediare il lettore non mi ha consentito di essere né esaustivo né
esauriente. Chi volesse approfondire i vari fatti narrati, e
controllare le fonti può consultare i Dossier 2011/2012 sulle mafie
in Emilia Romagna sul sito www.gaetanoalessi.blogspot.com
Ringrazio tutti gli studenti del laboratorio di
giornalismo partecipativo dell’università di Bologna “mafie e
Antimafia” e Silvia Occhipinti per il prezioso lavoro di ricerca.
Volete essere parte attiva? Organizzate una presentazione del Dossier nel vostro Comune. Scrivete a: adest1@libero.it
1 commento:
Caro Gaetano,
più che amareggiato, il riferimento alla mia persona nell’articolo a tua firma mi ha sorpreso. Ci conosciamo da tempo, abbiamo assieme partecipato ad iniziative contro ogni forma di illegalità e ritenevo potessimo dirci legate da un rapporto quanto meno di cordialità.
Hai rassegnato, al tuo blog, una pesante insinuazione che riguarda la mia attività professionale, immediatamente ripresa, come potevi immaginare, da corvi e avvoltoi
La tua considerazione, per cui sarebbe stato disdicevole assumere la difesa di Giovanni Costa, è sbagliata e te ne spiego le ragioni:
La difesa è diritto costituzionale. Tale espressione non può ridursi a clausola di stile. Avrai difficoltà ad accettarlo, ma io considero l’esercizio di diritto di difesa, ovviamente nei limiti della correttezza e della lealtà processuale, una garanzia dovuta a tutti e, per l’esercizio della mia professione, sommo riferimento.
Appiattire la figura del difensore su quella dell’assistito, qualunque reato abbia commesso, significa screditare la giurisdizione. Accettare che i criminali siano difesi da avvocati indipendenti, al contrario, è garanzia anche per il comune impegno civile contro l’illegalità, se è vero che solo il difensore indipendente può imporre una strategia difensiva corretta, scevra da improprie e deprecabili collusioni.
Quanto al caso Costa, ne ho accettato la difesa nella convinzione, resasi assoluta dalla progressiva lettura delle carte, che di dover tutelare una persona ingiustamente accusata del reato cui fai riferimento. Porto tutt’ora ferma questa convinzione e ho fatto ricorso a tutti i mezzi consentiti, perché quelle decisioni venissero ribaltate. Per consentirti una completa e corretta conoscenza della vicenda, ti invito ad acquisire presso il mio studio tutti gli atti processuali, come so eri stato sollecitato a fare dal mio collega e amico comune Andrea Gaddari. Lo stesso invito avevo rivolto, con diverso esito, ad altri esponenti di associazioni antimafia.
Non sono un avvocato di grido. Il mio studio si occupa di garantire la tutela di coloro che ritengono di essere stati lesi nei loro diritti. Nei casi in cui ho ritenuto non tutelabili le pretese di soggetti che si erano rivolti al mio studio (tra cui alcuni sono quelli che tu citi nell’articolo) con la convinzione che la mia storia personale richiede, ho rinunciato.
Caro Gaetano, ricorda che amministrate giustizia conferisce un potere terribile, poiché l’unico in grado di costringere la libertà delle persone, come scrivevano giuristi come Condorcet e Beccaria. Deve dunque essere esercitata nel rispetto dei diritti e della dignità dei cittadini e nei limiti dell’ordinamento giurisdizionale. Devi sapere che non sempre questi termini vengono rispettati. Ecco perché il ruolo del difensore è un ruolo primario per l’affermazione della legalità e del rispetto dei diritti dei cittadini.
Ti ringrazio dell’attenzione,
Libero Mancuso
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