sabato 15 dicembre 2007

RAFFADALI: LA STORIA DA DENTRO.

di Vincenzo Lombardo

Sotto questo titolo vorrei presentare dei brevi contributi per portare frammenti di conoscenza diretta nella realizzazione di alcune iniziative che hanno assunto nel tempo il carattere di vere e proprie istituzioni, nel caso in cui qualche ben intenzionato si decidesse a raccogliere elementi da utilizzare per mettere su una eventuale storia recente di Raffadali. Poiché parlo di fatti che mi hanno visto co-protagonista nella loro realizzazione sarà inevitabile che il discorso sia intrecciato con episodi di vita personale e che la narrazione proceda spesso in prima persona. Le realizzazioni di cui posso parlare con cognizione di causa sono: la casa del popolo, il centro anziani del villaggio della Gioventù, la Radio Popolare.Comincerei con la radio, visto che Gaetano ci ha fatto sapere che la sua vita ha subito una svolta all’età di 16 anni, quando ha incontrato per la prima volta Radio Popolare.Non so quanti anni avesse la radio locale quando è esplosa per essa la passione che ha sconvolto la giovanissima vita di Gaetano. So che l’idea di una radio a Raffadali era venuta al sottoscritto ai primi degli anni 70. Ero e sono convinto che il coinvolgimento e la partecipazione della gente, allora si diceva popolo, alla vita pubblica costituisse l’antidoto agli abusi del potere. Allora per potere locale si intendeva quasi esclusivamente l’amministrazione comunale, costituita da un monocolore PCI, che godeva sistematicamente di un consenso che oscillava tra il 60 e il 70%. Alla fine del 1970 rientravo in paese, fresco laureato in quel di Napoli. Avevo militato nella FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) già ai tempi della scuola superiore ad Agrigento. Quando tornai in paese il Partito era squassato: lotte intestine, scissione del gruppo de Il Manifesto, rarefazione de giovani, intellettuali si diceva allora, istruiti, diremmo oggi. L’accusa più grave rivolta al gruppo dirigente era di essere antidemocratico, stalinista, soffocatore delle istanze di rinnovamento provenienti soprattutto dalle fasce giovanili. Decisi di dare una mano al partito, con la convinzione che si dovessero affermare la democrazia all’interno della vita di partito e la moralità nella gestione della cosa pubblica Intorno alla metà degli anni 70 si cominciavano a intravedere in esponenti della giunta comportamenti che lasciavano perplessi proprio sul piano della moralità. Si stavano costituendo una mentalità ed una modalità che facevano perno sulle correnti organizzate, fondate su persone, dipendenti comunali, prevalentemente donne e vedove, che venivano tesserate per fare numero e pesare nelle decisioni congressuali. Lo scontro fra gli esponenti dell’amministrazione, gente pragmatica e senza tanti scrupoli morali, e l’area più propriamente politica e dalla forte connotazione etica fu feroce, e trovò una testimonianza palpabile in un congresso locale a cui fu chiamato il compianto Pio La Torre (1973 o 74 ). La sua mediazione mi consentì di avere un ruolo di rilievo dentro il partito e di occuparmi di organizzazione. Creai in quella fase le cosi dette cellule di quartiere, organismi di partito non istituzionali e non previsti dallo statuto, che costituivano l’anello di congiunzione tra l’istanza centrale di partito e la periferia del paese. La gente discuteva e partecipava, e in occasione di congressi, gli iscritti designavano in organizzate riunioni di caseggiato, tenute spesso in freddi magazzini, i loro rappresentanti negli organismi dirigenti. Inutile dire che questa pratica di democrazia diretta, decentrata, non ortodossa e non prevista dai regolamenti congressuali, suscitava l’ira e la reazione dell’establishment amministrativo, il cui massimo leader, Salvatore Di Benedetto, contestava questa concezione della democrazia, convinto com’era che la democrazia consistesse nella capacità del leader di interpretare i bisogni delle persone e dare ad essi una soluzione. I miei scontri con lui vertevano esclusivamente su questa differente idea della democrazia. Ma in breve tempo questa metodica della democrazia si rivelò impraticabile. Non c’erano sufficienti dirigenti per tenere le riunioni nei quartiere e parlare con le persone, per cui mi capitava a volte di fare tre riunioni in tre diversi quartieri nel corso della stessa serata. Una vita impossibile. Un martirio, una militanza che non poteva durare, specie quando cominci ad avere una famiglia e figli. Fu in questo clima e in questo quadro che maturò l’idea di mettere su una radio che consentisse alla dirigenza del partito di mantenere i contatti con il popolo e di rendere quest’ultimo partecipe delle scelte che si intendevano compiere. Perciò la radio fu battezzata, prima ancora di nascere, col nome di Radio Popolare.La sua realizzazione materiale fu opera del sottoscritto, assolutamente ignorante in fatto di tecnologia, che coinvolse nell’avventura un collega di inglese, il professore Aldo D’Angelo, con il pallino dello HI-FI e della telecomunicazione. Gli prospettai l’idea e lui disse che si poteva fare. Fece il preventivo del materiale occorrente, non mi chiedete cosa fosse: ricordo solo un paio di piastre, un microfono, un’antenna e poca altra roba. Ci recammo assieme in un negozio della GBC in via Dante ad Agrigento, il cui titolare, un vigile urbano, diede la massima disponibilità, sia per contribuire al montaggio sia per venire incontro alle scarsissime risorse finanziarie di cui disponevamo: di fatto molto materiale fu preso a credito . Il professore D’Angelo diede il suo contributo a titolo assolutamente gratuito. Per sdebitarmi, almeno in parte, qualche tempo comprai da lui un videoregistratore CGE, tutto in struttura metallica dal peso incredibile, che tengo conservato come cimelio. Un giorno i tre avventurosi salirono le scale malmesse che portavano nei locali della FGCI all’ultimo piano della casa del popolo in Piano Carmelo, poi divenuta Piazzetta Cesare Sessa, e cominciarono a sistemare la roba. Dopo circa quindici giorni di andirvieni la creatura cominciò a respirare. Fummo felici quando scoprimmo che la trasmissione si captava a circa 400 metri di distanza. Credo che fosse l’anno 1976 o 1977. Memorabile è stata la trasmissione in diretta del consiglio comunale in cui doveva deliberarsi se, quando,dove e come si sarebbe dovuta realizzare l’area per l’edilizia convenzionata e popolare in forza della legge 167, scelta che aveva suscitato una aspro dibattito dentro il PCI ed aveva catalizzato l’attenzione dell’intera popolazione. Alle otto di sera in piazza non c’era più anima viva e le poche persone presenti erano ammassate dentro il bar La Rocca ( attuale Bar dello Sport) ad ascoltare in religioso silenzio il dibattito del consiglio. La mia creatura era adulta. Aveva funzionato. Potevo occuparmi d’altroLa radio fu affidata ovviamente subito ai giovani. Poiché vado a memoria, non ricordo più i primissimi gestori della neonata creatura. Credo ci fosse Mimmo Frenda, sicuramente Totò Tarallo,il tabaccaio,- forse in seguito- e poi…poi. Gaetà, continua tu.....





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